La grande pianista torna al Bologna Festival per il Primo concerto di Beethoven: modi sbrigativi alla vista corrispondono, al solito, con l’ispirazione della lettura e il miracoloso atletismo
di Francesco Lora
IL SEMBRARE E L’ESSERE. Districare le due facce è virtuosismo dell’ascolto, soprattutto se al pianoforte siede Martha Argerich. La si è ascoltata, una volta di più nella sua fittissima agenda, al Bologna Festival, Teatro Manzoni, la sera del 6 aprile. In programma, attorno a lei, gli estremi della produzione sinfonica di Mozart: la n. 1 e la n. 41. In programma, ella al centro, il Primo concerto di Beethoven, già nel suo repertorio quand’era bambina. Corte formata dal direttore Gábor Takács-Nagy e dal Manchester Camerata: garrulo il primo nelle esposizioni didascaliche al pubblico, ma anche svelto, brillante e analitico nella conduzione delle musiche; senza strumenti originali la seconda, tuttavia interessata a un’esecuzione storicamente informata, con suono pungente e fraseggi frizzanti (e, curiosità, a maggioranza femminile nelle proprie file).
[restrict paid=true]
Si parlava, però, di virtuosismo dell’ascolto. Poiché la Argerich lo presuppone senza pretenderlo. Settantaquattrenne dalla disinibita chioma grigia, raggiunge la tastiera con scontata maestà; e lì continua a essere la ragazza eterna, insieme parvenza da outsider e spirito di abnegazione. Forza del braccio e peso inaudito della mano sui tasti: ma la gamma dinamica conosce e cava ogni possibile sfumatura mediante una stessa foga. Lettura veloce, sicura, decisa, come se un altro impegno più urgente attendesse la signora all’uscita, con tratti dunque di sbrigatività nel gesto e nel rapporto stesso con il pubblico: calando l’ultimo accordo del Concerto beethoveniano, la pianista è già scattata in piedi; concede lesta un bis di routine, con articolazione mozzafiato, e poi sparisce in quinta non senza aver fatto cenno all’orchestra di cavarsi rapidamente dai piedi anch’essa, affinché l’uditorio non maturi troppa illusione.
Eppure, insieme con queste visioni alla mente rimane un canto opposto: frasi flesse in un calmo rubato, con un’ispirazione tanto semplice quanto profonda, tanto ovvia quanto geniale, come se la recita di una vecchia liturgia non sapesse disgiungersi da un miracolo quotidiano; valori minimi e ghirlande di notine sgranate come perle, benché in quell’involo sembri trasfondersi il peso intero di una carriera, di una cultura, di un messaggio; sornioneria da gattona e zampata da pantera, sempre in sintesi nell’amore per i tempi slanciati a follia metronomica, con gli occhi che non fanno in tempo a mettere a fuoco le ottave percosse una dietro l’altra, né il trillo adamantino e atletico, scintillante e colossale. La Argerich, nel tempo e col tempo, fa del resto ciò che vuole: noi le invecchiamo attorno, ella viaggia su e giù per la tastiera a mostrare la sua demoniaca giovinezza.
[/restrict]
Ho avuto la grande gioia di assistere a questo concerto. Martha Argerich, che conosco bene e che avevo visto a Ferrara nel mese di novembre, riesce a commuoverti fin dal momento in cui entra in scena. La capacità di entrare nel brano spontaneo, immediato, di far sua ogni nota ricreandola -lo spartito ce l’ha nella testa e nel cuore, non ha bisogno di leggere- rendono l’esperienza indimenticabile. Tanto più che si tratta del Piano concerto n. 1 di Beethoven, che amo particolarmente e che, se non erro, è l’ultimo che interpretarono insieme lei e Claudio Abbado nell’aprile 2013. Aspetti con gioia la prossima esibizione di questa grande donna e artista e ti senti migliore. Ottima e pieno di verve la Manchester Camerata!