di Gianluigi Mattietti foto © Forster
Mariame Clément ha messo in scena a Bregenz il Don Quichotte di Massenet. Una delle sue regìe, frammentaria, discontinua, non priva di incongruenze, ma di grande suggestione, molto commovente, e con un’idea teatrale molto forte, rileggendo la storia del “cavaliere dalla triste figura” come una vicenda eterna, ancora molto attuale. Non ha compiuto una semplice trasposizione temporale, ha creato una specie di viaggio nel tempo e nello spazio, ambientando ogni atto in un’epoca diversa – partendo dall’epoca originale della vicenda, spostando gli episodi centrali ai nostri giorni, per tornare alla fine nel Seicento – con continui cambi di scene e di costumi (di Julia Hansen), giocando su una struttura metateatrale, con il palcoscenico che conteneva altri palcoscenici e altri sipari, come un gioco di scatole cinesi, dove i vari personaggi erano a turno attori e spettatori, e talvolta anche entrambe le cose simultaneamente, grazie alla presenza di silenti alter ego. Ha interpretato la figura dell’anti-eroe Don Chisciotte, come un’alternativa all’immagine cinematografica del super-eroe macho e seduttore, partendo da un suggestivo collegamento pubblicitario. Come al cinema, lo spettacolo infatti si apriva con la proiezione del recente, controverso spot della Gillette, che ruotava intorno all’interrogativo «È questo il meglio che un uomo può fare?», che sposava la campagna #MeToo, denunciando il bullismo e le molestie sessuali (e scatenato al contempo le ire di molti irsuti consumatori, che si sono sentiti criminalizzati, e che hanno accusato l’azienda, e la regista Kim Gehrig, di voler «demascolinizzare gli uomini»). A quel punto un uomo si alzava da una poltrona di platea, urlava come un matto contro quella pubblicità, poi saliva sul palcoscenico per vedere l’opera insieme al sosia di Don Chisciotte.
Il primo atto, con serenata e il duello, rispettava il colore locale, con una piazza affollata di uomini adoranti e Dulcinea che si affacciava dal balcone. Negli atti seguenti Don Chisciotte appariva come un uomo di oggi. Il secondo atto si svolgeva nel bagno di un moderno ospedale psichiatrico, dove il (folle) Chisciotte appariva come un giovane che si faceva la barba, poi la doccia, quindi, in accappatoio, si scagliava non contro i mulini a vento, ma contro la ventola di areazione (che si ingigantiva come una allucinazione) armato con lo scopino da water, usando come scudo il coperchio del gabinetto, scagliando contro quel mostro rotante asciugamani e rotoli di carta igienica. Nel terzo atto Don Chisciotte appariva vestito da Spiderman in un buio vicolo di periferia, di fronte a un muro imbrattato di graffiti e a una gang di teppisti che lo malmenavano, ma che poi si commuovevano di fronte alle sue parole, ammirati dalla luce paradisiaca che lo avvolgeva.
Nel quarto atto Don Chisciotte era l’alter ego di Spiderman, Peter Parker, un occhialuto impiegato, un po’ nerd, imbranato, deriso dai colleghi di un grande ufficio, modernissimo, illuminato da lampade al neon, dove tutti corteggiavano Dulcinea, che qui aveva le sembianze di una moderna manager: la grande festa si trasformava in un party aziendale, con torta, durante il quale Don Chisciotte consegnava la collana a Dulcinea e le faceva la sua romantica proposta di matrimonio, scatenando la crudele ilarità dei colleghi. Dopo la grande aria di Sancho che difendeva l’idealismo sognatore del suo padrone («Riez, allez, riez»), Dulcinea si strappava di dosso la collana, e pensierosa scendeva dal palco, per andarsi a sedere su una poltrona, ed assistere alla morte di Don Chisciotte nel quinto atto: l’eroe, di nuovo nella sua tradizionale armatura, all’interno del piccolo teatrino con alberi disegnati in bianco e nero, dava l’addio alla vita e all’amore, mentre Dulcinea usciva di scena attraversando la platea, illuminata da una luce accecante. Il cast era di altissimo livello, peccato solo per la pronuncia francese non proprio impeccabile. Il basso Gábor Bretz, nel ruolo eponimo (che Massenet scrisse per Fjodor Šaljapin), sfoggiava una voce solida, morbida, dal timbro pastoso, piena di accenti espressivi, capace di esprimere tutta l’umanità del personaggio. La parte di Dulcinea (cui Massenet diede grande rilievo con tratti sensuali, sostituendo la donna rozza dell’originale di Cervantes con una nobile dama) era affidata al mezzosoprano russo Anna Goryachova, voce agile, ma dal bel timbro scuro, capace di un fraseggio sospiroso (come nell’aria «Lorsque le temps d’amour a fui»), e ottima attrice, con un fisico asciutto, e una vena malinconica cha rendeva molto bene in questa tipo di allestimento. Sancho era interpretato dal baritono britannico David Stout, che sapeva cogliere il lato grottesco e profondamente umano del personaggio (un po’ Leporello, un po’ Falstaff). La direzione di Daniel Cohen, sul podio dei Wiener Symphoniker, era molto attenta all’equilibrio con le voci e faceva emergere, accanto ai colori vivaci e ai ritmi scattanti, anche i dettagli più delicati della partitura, sottolineando la dimensione intimistica e malinconica dell’opera.