di Francesco Lora
Quanto ha da dire, Daniele Gatti. La Messa da Requiem di Verdi, al Teatro Regio di Parma, per il Festival verdiano, diretta da lui il 2 ottobre, è un discorso serio, netto, fermo, di una maturità che non chiede di essere ammirata ma porta a covoni il frutto del lavoro.
Una lettura sommessa eppure possente, non per esibizione di volumi bensì per somma di timbri, indugio di passo e densità di pasta; nessuna estetizzazione deliberata, ma incalcolabili momenti di contemplazione struggente; punto di vista che è quello del peccatore in inquieta tensione verso la beatitudine, anziché quello tremendo e inaccessibile dell’Onnipotente che giudica e – gratis – redime.
Dalla partitura vengono così in luce tanti dettagli che la fanno conoscere meglio mentre già si presumeva, presuntuosi, di saperla tutta: avviene ovunque nel canto dell’orchestra, con i temi che si prendono ciascuno, in punta di piedi, il proprio tempo e un vivo palpito agogico; avviene in particolare nella stanca carezza che spira sul «Recordare» della Dies iræ o, un “numero” dopo, nell’«Ingemisco», dove l’oboe schiude un orizzonte pastorale, un miraggio lontano, un anelare sognante, dolente, innato, alla maniera mitteleuropea, anzi universale, di quanto si ascolta nel corno inglese di Tannhäuser e Tristan und Isolde. L’Orchestra sinfonica nazionale della RAI risponde al podio con lo stato di grazia: raccoglie e moltiplica ogni immagine richiesta, aggiungendo di suo un brillio argentino utile a confortare di manzoniana provvidenza una visione altrimenti umana, concreta, pessimista, insomma leopardiana. E il Coro del Regio, preparato con schiettezza romano-padana da Martino Faggiani, mostra di conoscere il segreto per il quale si sa sussurrare anche con terribilità sismica. Un tale contesto benedetto e irripetibile, esigentissimo nel chiedere la semplice verità in luogo dell’artificio ipocrita, può impensierire solo quei quattro: i cantanti solisti. Il soprano Maria Agresta reca in dote pianissimi radiosi, arruffa qui e là la pronuncia del latino ecclesiastico, giunge affievolita all’impennata finale del «Libera me Domine» ma si impone, come oratrice sobria e autorevole, nella declamazione della supplica conclusiva. Il mezzosoprano Elīna Garanča si è fatta via via – e come tale si presenta – più contralteggiante, impassibile, statuaria e per nulla sensuale, senza perdere in risonanza e sfumando prima per virtù di tecnica e di calligrafia che non per poetica artistica e istinto retorico. Il tenore Antonio Poli è tra tutti quello più a suo agio: vanta l’immediata comunicativa di tinte, timbro e porgere all’italiana, anche e soprattutto quando, nell’«Hostias» dell’Offertorium, con canto ridotto a un filo, va e manda in estasi come un sacerdote consacrante. Il basso John Relyea, infine, ostenta materiale di surround talvolta impressionante: la generosa dotazione da parte della natura, tuttavia, scende male a patti con la sorvegliatezza tecnica, la quale occupa appunto il primo posto nel paesaggio spirituale di Gatti. Spirato l’ultimo silenzio, dieci minuti di applausi: pochi.