di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Il Simon Boccanegra porta fortuna alla Scala, almeno da quando fu varata l’indimenticabile versione Strehler-Abbado del 7 Dicembre 1971 che rimase in cartellone per diverse riprese fino al 1982, e poi con l’allestimento di Federico Tiezzi, Pier Paolo Bisleri e Giovanna Buzzi che ha visto il succedersi di tre direttori tra il 2010 e le recite di questo mese di giugno: da Barenboim a Stefano Ranzani e oggi a Myung-Whun Chung. Preceduto dalla fama di direttore amatissimo dalla Filarmonica della Scala nel repertorio sinfonico, e soprattutto dalla sua conoscenza del Boccanegra, che data alla fine degli anni ’80 con uno spettacolo del Maggio Fiorentino e che è stata di recente verificata con successo alla Fenice, il direttore coreano ha dato l’altra sera una lettura di grande spessore del capolavoro verdiano, coadiuvato da un cast di valore notevole.
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Lo svolgersi di un lungo percorso di iniziazione tecnico-interpretativa da parte di Chung è percepibile anche solo paragonando le prime misure del Preludio nelle recite recenti di Venezia e oggi di Milano con quelle della “prima” fiorentina che risale a ventotto anni fa: là dove si era di fronte a un mestiere di livello pur eccellente si è inserita una capacità nel cogliere perfettamente le esitazioni e i respiri del linguaggio verdiano.
Si è trattato dunque di una “prima” che ha lasciato il segno e che ci ha ricordato gli entusiasmi del pubblico dell’era Abbado: il Simone è opera bellissima ma non facile da intendere per lo spettatore non abituato a cogliere le mille sottigliezze di una trama musicale che si insinua nel complesso ordito della vicenda e contribuisce a descrivere con intuito impressionante il carattere e gli umori contrastanti dei diversi personaggi, suggerendo ancora i temi di un patriottismo che non era più così sentito all’epoca della seconda versione dell’opera (1881). Dello spettacolo di Tiezzi avevamo parlato un paio di anni fa a proposito della presenza scaligera del giovane direttore Stefano Ranzani e di un secondo cast che annoverava tra gli altri Domingo, Anastassov e la Serjan.
Nel primo cast del 2014, così come nell’indimenticabile versione da concerto diretta da Georg Solti nel 1988, il ruolo del Doge era affidato a Leo Nucci, che l’altra sera si è nuovamente presentato al pubblico della Scala, all’età di settantaquattro anni, dimostrando un sempre maggiore approfondimento – diremmo una incarnazione perfetta – di un personaggio così complesso, e allo stesso tempo esibendo una padronanza vocale e soprattutto di fraseggio che si può inserire a buon titolo in un record di primati. Accanto a lui cantava il Fiesco di Dmitry Beloselskiy, voce di basso russo in linea con la grande tradizione, che ha denunciato solamente un momento di difficoltà nella chiusa della celebre aria nel Prologo. Ma esemplari sono stati l’Adorno di Giorgio Berrugi, che si è meritato l’unico applauso a scena aperta nella sua aria del secondo atto, il davvero perfido Paolo Albiani di Massimo Cavalletti e il Pietro di Ernesto Panariello. L’Amelia di Carmen Giannattasio non ha fatto certo dimenticare la Freni e non ci è sembrata collocarsi su un livello di pari eccellenza rispetto alla media del cast.
Gli applausi più sentiti sono stati alla fine quelli per Chung e per la sua sensibilità nel sottolineare tutti gli interventi orchestrali di maggiore impatto (come nel caso del primo incontro tra Boccanegra e Fiesco, o nel riconoscimento di Amelia da parte dello stesso Doge). Dal proprio palco, il sovrintendente Pereira seguiva con evidente partecipazione lo svolgersi degli eventi e si mostrava visibilmente commosso e partecipe nel momento del «E vo gridando pace» e nel sublime quartetto finale, vette estreme che non mancano di smuovere anche il pubblico più refrattario.
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