L’Ensemble Intercontemporain diretto da Bruno Mantovani nell’omaggio al suo fondatore: compositore roccioso, teorico rigoroso, saggista autorevole


di Luciana Galliano foto © Christian Payne


DIFFICILE TROVARE UNA PERSONALITÀ pari a quella di Pierre Boulez nel quadro della Nuova Musica del dopoguerra: compositore roccioso, teorico rigoroso, saggista autorevole, in realtà un visionario, musicista a tutto tondo che ha esercitato il suo carisma ad ogni livello della pratica musicale, terrorizzando schiere di apprendisti compositori negli implacabili anni del serialismo darmstadtiano e però anche favorendo schiere di apprendisti compositori con iniziative quali la costituzione dell’Ircam e anche del gruppo Ensemble Intercontemporain che gli ha offerto, nell’ambito del Festival Mito 2015, un omaggio ai novant’anni, compiuti il 26 marzo. La sua utopia, urgente in quegli anni del dopoguerra, di poter liberare la musica da qualsiasi contaminazione con un passato sanguinario, attraverso una indefettibile costruzione musical-architettonica, fu il serialismo totale. Molto presto però, alla fine degli anni Cinquanta, Nicholas Ruwet denunziò le aporie di una struttura musicale meravigliosa sulla carta ma inudibile all’esecuzione, poi seguìto con analoghi e più estesi argomenti nel 1960 da György Ligeti, con il fondamentale articolo Metamorfosi della forma musicale.

Immersione dunque negli anni Cinquanta: abbiamo ascoltato, del maestro, lavori fondamentali come le Improvisations I & II sur Mallarmé (1957) e il Marteau sans maître (1953-55); il programma esordiva con l’edizione che nel 1954 Boulez fece delle Chansons de Bilitis (1897) di Claude Debussy, usando le parti originali dei due flauti e delle due arpe e integrando la parte di celesta, andata perduta, nell’accompagnamento alla recitazione del testo. Che racconta la storia di Bilitis, cortigiana greca del IV sec. a.C., presentata dall’autore Pierre Louÿs in una serie di liriche pesudo-greche, pseudo-saffiche in stile alessandrino, cariche di sensualità e immagini letterarie mitologico-pastorali. Ed è suonato più Debussy che mai: ah, le volute per intervalli di quarta delle arpe! e le linee sinuose dei flauti. Non avrebbe potuto esserci premessa migliore alle sonorità dello stesso (francese) Boulez: lirismo, leggerezza, chiarezza sono caratteri emersi dall’ascolto dei due brani, non datati, anzi dotati di una fresca grazia.

Le Improvisations nascono intorno alla poesia di Mallarmé, poeta tersissimo ossessionato dalla purezza formale; Boulez intenzionalmente si dedica alla resa, quasi mimetica nelle simmetrie e nelle durate, dei versi dei sonetti «La vierge, le vivace et le bel aujourd’hui» e «Un dentelle s’abolit» – il mitico ‘pizzo che si elimina’ largamente discusso come epitome di inafferrabili profondità formali che si intuiscono misteriose nella materia. Ciò che si sente è un fluire ricco e inafferrabile come mimesi di improvvisazione (grazie anche alla sapienza interpretativa del gruppo, fra tutti la flautista Frédérique Cambreling e la soprano Hélène Fauchère), e direi giustamente lirico, ingentilito e illuminato da un pacato uso di innumerevoli percussioni di diverso colore; l’organico prevede infatti quattro postazioni di percussioni più vibrafono e campane tubolari insieme ad arpa, pianoforte e celesta. Poi Boulez, secondo una ricorrente pratica di collocazioni elaborazioni e ripensamenti delle proprie partiture improntata all’idea di work in progress, integrerà le Improvisations nell’opera Pli selon pli. Il Marteau sans maître resta invece originale, annoverato com’è fra le opere più significative del Novecento a rappresentarne la seconda metà accanto al Sacre du printemps e al Pierrot Lunaire. È un lavoro bellissimo, prezioso nell’articolazione di cui si percepisce la cesellatura nell’alternarsi di introduzioni, esposizioni, commenti cantati, commenti strumentali (questi particolarmente fascinosi), e infine emerge precisamente l’artisanat furieux di quel marteau sans maître ma non è pesante, anzi indugia sognante nelle regioni alte della tessitura strumentale e vocale. Impeccabili il direttore Bruno Mantovani, il chitarrista Jean-Marc Zwellenreuther, Odile Auboin alla viola, i percussionisti tutti, forse un po’ in difficoltà a entrare nel meccanismo anche delle intonazioni il mezzo-soprano Salomé Haller, pur perfettamente dentro il latente aspetto teatrale della parte vocale. Applausi.

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Boulez in 44 cd – Deutsche Grammophon


L’anno felice di Pierre Boulez per il traguardo del suo novantesimo compleanno ha visto la pubblicazione di significativi omaggi discografici. La Deutsche Grammophon propone un nuovo box di prestigio intitolato Pierre Boulez 20th Century. Quarantaquattro cd per testimoniare discograficamente la più recente (dal ’74 con Birtwistle al 2011 con Szymanowski) evoluzione interpretativa del direttore-compositore o la riconferma di scelte autoriali già operate negli anni Sessanta e primi Settanta.

Bartòk e Stravinsky, nella visione d’insieme del box, sono i compositori dei quali viene tratteggiata maggiormente l’opera, da Miraculus Mandarin del primo all’Ebony Concerto del compositore russo. Immancabile la presenza della Seconda scuola di Vienna, da Pelleas, Pierrot, Ode to Napoleon di Schonberg a Lulu di Berg in versione naturalmente integrale visto il ruolo che Boulez ebbe nella riproposizione dell’opera.

Messiaen, Szymanovski, Ligeti, Varèse, Birtwistle, Debussy, Ravel e ovviamente Boulez (da Le Marteau sans maître a Pli selon Pli, dalle Notations a Sur Incises) completano il sommario dei compositori. Grande assente però, per una ricognizione che certo non può essere esaustiva, è Gustav Mahler. Ci troviamo di fronte ad una operazione discografica sicuramente importante, corpus per un ascolto variegato, tratteggio nitido e granitico del Boulez divenuto Boulez. (s.p.)

Luciana Galliano

Luciana Galliano

Musicologa e studiosa di estetica musicale, ha coniugato un approfondito interesse per la musica contemporanea con una speciale attenzione alla musica contemporanea giapponese. Ha a lungo insegnato Antropologia Musicale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha collaborato con Luciano Berio per le ricerche musicologiche delle sue Norton Lectures (1993); collabora con le maggiori riviste musicologiche e con diverse istituzioni musicali tra cui CHIME (European Foundation for Chinese Music), i Festival MilanoMusica e MiTo, TextMusik. Responsabile della sezione musicale per il CESMEO (Istituto Internazionale di Studi Asiatici Avanzati), è corrispondente dall’Italia per alcune riviste musicologiche giapponesi. Ha partecipato ad innumerevoli convegni internazionali e tenuto conferenze in molte università italiane, giapponesi e americane. Ha pubblicato articoli su riviste scientifiche, contributi a volumi con Olschki, EdT, Guerini, Bärenreiter; i libri Yōgaku. Percorsi della musica giapponese nel Novecento (Cafoscarina 1998; ed. inglese: Yōgaku. Japanese Music in Twentieth Century, Scarecrow 2002); Musiche dell’Asia Orientale (Carocci 2004), The music of Jōji Yuasa (Cambridge Scholars Publ. 2011).

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