di Attilio Piovano
Insolita apertura, per lo Stresa Festival 2016, la sera del 23 agosto al Palazzo dei Congressi: non già una grande orchestra, loro due, sole, sul palco, alla tastiera degli Steinway grancoda d’ordinanza. Le mitiche sorelle Katia e Marielle Labèque, bianconere vestite, l’una il negativo dell’altra, beninteso, sono peraltro una garanzia assoluta; e allora, come sempre, pubblico delle grandi occasioni e sala gremita dal consueto, raffinato pubblico (molti gli affezionati stranieri) che da ben cinquantacinque edizioni frequenta il blasonato festival lacustre: non da meno dei vari Bregenz, Lucerna e via elencando.
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L’eleganza interpretativa delle Labèque sembra essere un dato cromosomico, qualcosa di insito e strettamente connaturato al loro essere musiciste a 360 gradi, così come la loro garbata naturalezza nel suonare. Più passano gli anni e più la loro perfezione simbiotica appare prodigiosa. Suonano insieme da sempre, si sa, fin dalla tenera età, e lo si comprende dopo due sole note, prima ancora lo si intuisce da come siedono alla tastiera, da come s’intendono con delicati sguardi e impercettibili cenni. La loro sintonia nel ‘sentire’, la loro visione unitaria del brano e dell’autore ha qualcosa di unico che soltanto un duo formato da sorelle può vantare. Chiudendo gli occhi pare di sentire un unico esecutore, tanta e tale è la loro simbiosi timbrica, più ancora di tocco.
Con Ravel, poi, il loro feeling è assoluto. E dunque che gioia ascoltarle centellinare a quattro mani Ma mère l’Oye, le delicate cinque fiabe di cui danno una lettura estremamente intimista, eppure ricca di colori e gradazioni timbriche. Non una sola nota fuori posto, ogni frase una delizia per le orecchie e per l’animo, già in apertura con l’arcaismo della Pavane de la Belle au bois dormant, di cui restituiscono tutta la poesia, morbida e frale. Poi la sinuosa bellezza di Petit Poucet che le Labèque animano appena un poco nella zona mediana, mantenendo sempre le dinamiche nel campo del rarefatto, quindi le raffinatezze di Laideronette e tutto quel profluvio di tinnuli carillon restituiti con una grazia pudica e una tenerezza che hanno del prodigioso. Anche della Bella e la Bestia forniscono un’interpretazione molto misurata e composta, appena venata di lievi increspature che fanno palpitare la pagina, ibridandola (laddove altri contrappongono, in maniera ostentatamente plateale, soavità della fanciulla e rude ripugnanza del personaggio destinato a trasformarsi in principe azzurro). Un dettaglio: per dire, quanta eleganza nello sciorinare il glissando che porta alla metamorfosi, indugiando e appoggiando con una sapienza unica la nota acuta di approdo… chi ha suonato anche solo per gioco almeno una volta il capolavoro raveliano può ben comprendere. Unica, doverosa e prevedibile, concessione, nell’ebbra chiusura del Jardin féerique con quelle ialine fanfare e quegli appelli luminescenti che paiono preconizzare l’orchestra. Indimenticabile.
Poi eccole in formazione per due pianoforti e via con la Rhapsodie espagnole. Raramente accade di percepire con simile intensità tutto il mistero della notte, gli effluvi mediterranei e gli aromi che dalla pagina esalano, ma anche l’esuberanza della festa e la nitida chiarezza dei ritmi iberici nella celeberrima Habanera. Ammirevole la secca asciuttezza di certi tratti dove le Labèque ricreano tutto un mondo di timbri, inventando un’orchestra intera (e si sente che le due colte pianiste hanno ben presente la versione sinfonica del ‘mago’ Ravel, principe degli strumentatori), una vera lezione di stile: così l’allusione a quei passi che paiono anticipare il neoclassicismo del Tombeau de Couperin e nel contempo l’ideale accostamento a certo Debussy, con gusto ed eleganza.
Grande attesa, poi, da parte del pubblico, per lo stravinskiano Sacre che le Labèque affrontano con la carica energetica di due ragazzine, dando corpo agli scuotimenti tellurici di tale pagina con un vigore e una forza indicibili. Un dettaglio: le poliritmie di cui il capolavoro è costellato non paiono costituire problema alcuno, tutto è saldamente e rigorosamente in asse, e al tempo stesso non viene meno quella souplesse che in Ravel è un dato imprescindibile, e pur tuttavia nelle pieghe più tenui e diafane del Sacre non è certo da escludere.
L’attesa era dovuta all’allestimento semi scenico, o più propriamente all’animazione visiva (commissionata da Stresa Festival), produzione Sanpapié con la regìa di Stefano Monti, gli essenziali e pur efficaci elementi scenici di Cecilia Sacchi e la coreografia di Lara Guidetti: in scena Andrea Tibaldi, Francesca Martignetti, Lara Guidetti, Martina Monaco, Saverio Bari e Tony Contartese. Pochi ed esili dunque gli elementi scenici: maschere, cornici bianche e rosse, mani, ombrelli di carta colorati, suggestioni come puzzle evocativo di un quadro di Kandinskij, una ragazza ‘di legno’ che viene portata via dalle maschere e la danzatrice in carne ed ossa (l’Eletta) che, con movimenti angolosi, cubisti, danza pochi istanti in maniera parossistica, fino all’estenuazione, come da copione, ‘infilzata’ simbolicamente dalle cornici, prima bianche, poi rosse, poi nere. Suggestivo e soprattutto non troppo invasivo. Anche se, a ben guardare, nulla aggiunge che non sia già in partitura.
A fine serata festa grande, applausi per tutti, in primis alle Labèque che da ultimo hanno inteso prolungare le atmosfere del Sacre regalando ancora un bis, nel segno del minimalista Philipp Glass (ma dopo il sommo Igor… qualsiasi brano pare inadeguato e per così dire esornativo, se non francamente inutile). Incontrarle in camerino, miti e sorridenti, e conversare con loro in un miscuglio di italiano e francese è un’ulteriore gradevole conferma: posseggono la naturalezza e l’umiltà dei grandi, sembrano volerti significare che suonare il pianoforte a quei livelli sia la cosa più ovvia di questo mondo, come bere un bicchiere d’acqua. Dietro, si sa, c’è una vita intera di studio, approfondimento e crescita, ma soprattutto passione ed entusiasmo incessanti. Parliamo di prossimi appuntamenti, di tournées e di progetti e percepisci che in loro non esiste lo spettro della routine, non esiste l’appiattimento del suonare-mordi-e-fuggi-via-un-concerto-dopo-l’altro. Ed dopo averle intraviste in jeans scivolare nel van che le riporta in hotel, trascinando esse stesse i trolley, i mazzi di fiori in mano, ammiccando ai fans che con discrezione salutano, le senti ancora più vicine e ‘normali’, lontane anni luce da qualsiasi atteggiamento divistico. Come se suonare Ravel e il Sacre fosse la cosa più ovvia. Paghe di avere recato un messaggio di gioia e raffinatezza in questo mondo di barbarie dove c’è tanta necessità di Bellezza e Assoluto. In una parola, paghe di svolgere la loro missione di artiste.
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