[wide]
[/wide]
Festival • Scomparso nel gennaio dell’anno scorso, lo straordinario contrabbassista era anche un compositore di vaglia: questa sua attività è stata messa in primo piano sotto una luce particolare dalla Rassegna di Nuova Musica di Macerata, da lui fondata e per tre decenni diretta
di Giampiero Cane
Era naturalmente un dovere che l’edizione di quest’anno della Rassegna di Nuova Musica di Macerata fosse dedicata a Stefano Scodanibbio, suo ideatore tre decenni fa e costantemente suo animatore fino alla prematura scomparsa. Perdendo lui abbiamo subito la privazione di un sommo interprete del contrabbasso: questo ormai qualsiasi appassionato di musica dovrebbe saperlo. Ma i tre concerti che già ci sono stati, e che hanno costituito la prima tranche della Rassegna, hanno offerto al pubblico la sua immagine di compositore, della quale s’aveva ampia notizia, anche tramite le registrazioni, ma che restava comunque alquanto in ombra dietro la strepitosa valentia contrabbassistica.
Non è raro che un compositore sia anche un apprezzabile pianista, basti pensare a uno Chopin o a un Monk, ma lo è che raggiunga apprezzamenti nella composizione chi tratti uno strumento diverso dalla tastiera. Si potrebbero ricordare Paganini, Boccherini, Roscoe Mitchell, Charles Mingus, John Zorn, Frank Zappa, ma in fin dei conti non s’andrebbe molto in là e, comunque, il panorama tenderebbe ad arricchirsi solo in relazione al Novecento che è stato il secolo nel quale s’è affermata la continuità tra l’autore e l’attore per via del campo riscoperto dell’improvvisazione. Scodanibbio, sebbene non si negasse a incontri di libera interazione musicale, non amava particolarmente l’improvvisazione. Credo che reputasse il jazz semplicemente un genere, con la medesima svalutazione che ha luogo nel considerare come un genere la musica del Novecento, dicendola di Darmstadt, di Nuova Consonanza o dell’Ircam o di qualche altro diavolerio.
Anche se piacevolissime, non credo però che le tre serate musicali a Macerata, tra lunedì e mercoledì scorsi, abbiano reso un gran servizio alla sua immagine. Non è perché il monografico risulti necessariamente ripetitivo o monotono (comunque i concerti monografici sono praticamente spariti dalla programmazione), ma è perché ne è saltato fuori uno Scodanibbio che componeva, come dire? al retrovisore. Personalmente non ne avevo un’immagine così, ma non ho potuto che arrendermi di fronte a quel che è stato messo in programma, dal primo pezzo della prima serata della rassegna al secondo e conclusivo della terza. Non credo inoltre che l’appendice affidata a Terry Riley (avrà luogo il 12 maggio) abbia in sé la capacità di modificare quel che in questo momento mi sento di scrivere, perché sarà tutta di musiche di Riley salvo una parodia di Scodanibbio del celeberrimo In C.
L’apertura della Rassegna è stata affidata a Plaza, una pagina del 2002 per quattro trombe. È ricca di fascino e di malia, quindi molto bella, ma la si potrebbe ascrivere al primo quarto del secolo scorso: suona perfettamente ivesiana. Non è una critica negativa. Se il rinvio è sensato, questa musica si connette con l’ultima creatività felice prima dei massacri del Novecento, quelli del potere contro l’intelligenza e quelli del risarcimento preteso di ciò. Anche Vanishing Places, del 2007, rinviava a un passato molto, molto distante, cioè a Monteverdi. Dirò solo che per un gioco così sarebbero serviti archi di una qualità decisamente superiore a quelli della dozzina di membri dell’Orchestra Marchigiana cui è toccato il compito. Accantonando per il momento le musiche di Scodanibbio per il suo proprio strumento, Lucida sidera, del 2004, per quartetto di sassofoni, è una pagina ben scritta, intelligente nella modestia della sua economia (i 4 sassofonisti usano solo il tenore e il soprano), ma sembra ignorare quel che già facevano i Rova o il World Saxophone Quartet, quindi capace di far arretrare un po’ la ricerca sulle potenzialità della combinazione.
Scodanibbio amava incondizionatamente Bach. Io no. Ma questo non conta. Avrei voluto discutere con lui quel che sto per scrivere, ma non è accaduto. J. S. Bach era un musicista talmente reazionario che ha dato al mondo per secoli l’impressione di essere l’interprete autentico del gotico, se non il suo postumo inventore, capace a secoli di distanza di dare alle chiese medievali il corrispondente musicale. Riscrivendo una sua pagina dall’Arte della fuga, Stefano lo toglie da quei secoli bui, ma lo colloca nel medesimo rinascimento di Vanishing Places. Personalmente ritengo che Scodanibbio abbia fatto musica assai migliore scrivendo i propri studi per contrabbasso (magari tralasciando i primi due che non mi sembrano affatto brutti, ma solo un poco ingenui e scolastici) piuttosto che non coi giochi delle sue reinvenzioni o riscritture. Sono musiche che vengono da un passato dolce, ma non proprio sfolgorante; lui ne reimpasta la materia in nuove seduzioni timbriche che dovrebbero ingannarci al punto di passare inosservate. Non saprei se il musicista pensasse alle musiche d’arredamento di Satie: la sua attenzione all’insegnamento di Scelsi potrebbe far pensare che sia così, ma il suo guardare a Bortolotto come a una bibbia lo impedirebbe affatto.
Anche Labore Navigacionis, pagina per due pianoforti, tradotta in un’edizione per un pianoforte solo da Fausto Borgongelli (che qui ne è stato l’interprete) risultava musica fortemente ispirata dal passato. Non direi dal futurismo italiano, scuola musicalmente ridicola, ma un poco da quello russo e/o dal pianismo Usa post-ivesiano, per esempio, da Cowell. Può andare benissimo, ma insiste nel mostrare un Scodanibbio che non è quale lo conosco per aver conversato più volte con lui, quale risulta da una lettura più ampia della sua produzione, sia pure anche solo attraverso le registrazioni. Da qualche parte dev’esserci qualche errore e, ovviamente, potrebbe essere dalla parte di chi scrive, cioè un errore mio di valutazione, ma (e finalmente ce ne torniamo al contrabbasso) non soltanto la Geografia amorosa del 1994, ma anche l’Ottetto, tra le cose sue ultimissime, mi sono parsi affidati a mani e archetti timorosi, allievi che hanno suonato con troppo rispetto, irrigidendo le musiche in gesti esecutivi troppo composti (nel senso di rispettosi e beneducati), tali da riportare il contrabbassismo di Scodanibbio a una sorta di intersezione tra Fernando Grillo e Barry Guy, comunque essendo stato l’italiano, se non sbaglio, uno dei suoi insegnanti, un suo punto di riferimento. Nel mondo musicale di Scodanibbio, il suonare il contrabbasso direi fosse un artigianato. Come strumentista si prestava ai mondi musicali più vari, disposto a curiosare tra i più diversi atteggiamenti. Come musicista era molto esigente e severo, probabilmente prima di tutto con sé stesso. Direi che fosse da considerare alla stregua di un autodidatta, come capita a tutti coloro che sanno andare ben oltre i limiti di quel che sa dar loro l’insegnamento. E della musica aveva un’idea sua, nella quale avevano rilievo nomi di musicisti non necessariamente in contrasto, ma operanti in prospettive musicali non convergenti. Il caso più evidente è nella collaborazione con Nono.
Stando all’impressione che ho ricavato dalle parole di Stefano, del compositore a lui piacevano i suggerimenti, gli stimoli. Anche Giancarlo Schiaffini m’ha parlato in maniera simile del suo rapporto con il veneziano. Ma, mentre Schiaffini m’avrebbe probabilmente parlato del jazz e dell’improvvisazione come momenti (forze) determinanti del Novecento musicale, Scodanibbio un paio di volte ha posto decisamente l’accento sulla dodecafonia e il minimalismo («e su che altro, altrimenti?»). Non saprei dire con certezza quanto parlasse di sé e quanto degli effetti sulla vita della musica. Ma, se la vita è il consumo, mi pare sia almeno originale investire sulla dodecafonia; però, chiusa la scuola viennese, la dodecafonia non direi abbia prodotto granché. E inoltre non vedo molto da opporre a Ugo Duse prima, poi a Morton Feldman nel valutare quest’esperienza che, personalmente, mi pare prima di tutto effetto del bisogno del suo inventore di vivere con delle regole, per poter dire (nel senso dell’analisi) com’era fatta una musica. Schoenberg pare quasi terrorizzato dall’assenza di una mappa, di un sentiero. Qualcosa della sua musica a mio parere migliore è in quell’informale che precede la dodecafonia, anche se è guastato da poesie insopportabili che Schoenberg metteva lì a far l’ossatura di un corpo che altrimenti gli si sarebbe afflosciato in mano, come ritengo egli temesse. In effetti, poi, Scodanibbio, di dodecafonia non ne ha messa moltissima nei programmi della Rassegna, anzi poca. Col minimalismo ripetitivo si divertiva, credo, un po’ di più. Il suo In D, parodia della notissima musica di Terry Riley, fu eseguito un anno a Macerata e quest’anno sarà ripreso il 12 maggio.
La Rassegna, che aveva avuto una stagione iniziale piuttosto fortunata, stava navigando in un teatro spesso semivuoto quando Stefano pensò di caratterizzarne alcune edizioni con musiche d’Oltreoceano. Fu rapidamente un buon successo, ma certo la Rassegna non avrebbe poturo fermarsi a quel minimalismo combinatorio (una traduzione in musica, un po’ meccanica, dei mobiles calderiani?) senza rinunciare alla sua più intima natura. A Scodanibbio il metodo dodecafonico e il minimalismo ripetitivo interessavano di sicuro, ma non saprei dire quanto per una passione sua personale e quanto per la presa, soprattutto del secondo, sul pubblico. In effetti la Rassegna ha sempre navigato nei pentagrammi più diversi, tra Berio e Donatoni, ma anche tra Ravel ed Ives, con Xenakis, Zimmermann, Carter, Nancarrow, Estrada e Beethoven. Per far andare avanti delle musiche per ensemble che richiedevano un direttore, Scodanibbio s’è anche inventato tale. Ma l’ha fatto rigorosamente, senza divismo alcuno, però non solo da metronomo umano, bensì correggendo quel che spesso non funzionava fin nelle imperfezioni scolastiche degli esecutori. E alle musiche sapeva dare l’enfasi giusta. Senza affatto semplificare la musica, la rendeva più semplice di quanto non fosse precedentemente parsa a chi la conosceva.
© Riproduzione riservata