di Attilio Piovano foto © Di Nozzi
Festosa inaugurazione dello StresaFestival, la sera dello scorso venerdì 23 settembre 2019 al Palazzo dei Congressi, per l’edizione attuale del blasonato festival lacustre giunto ormai alla sua cinquantottesima annata. Una vera e propria ovazione per Gianandrea Noseda – che del Festival è da decenni l’apprezzato direttore artistico – sul podio dell’Orquesta de Cadaqués; «orchestra – ha spiegato egli stesso, con comprensibile orgoglio rivolgendosi al pubblico prima dell’inizio del concerto – con la quale vinsi venticinque anni or sono il concorso per direttori d’orchestra e che da allora non ho mai smesso di dirigere».
Noseda ha poi subito ‘spiegato’ le ragioni di un abbinamento in apparenza inconsueto di autori e pagine in programma: il mozartiano Concerto in do maggiore K 503 e del sommo Stravinskij il balletto Pulcinella, nella sue versione integrale, vale a dire con le parti cantate che è abbastanza raro ascoltare in sede di concerto. È il 1786 e ci troviamo dinanzi ad un Mozart che, reduce dall’enorme (ma illusorio) successo delle Nozze, di lì a poco destinato a scemare, nei pochi anni che gli restano da vivere decide di «proseguire nella direzione dell’approfondimento, sia formale, sia concettuale», del suo operare artistico, obbedendo solamente alle proprie esigenze interiori: insomma – chiosa Noseda, con immagine un po’ ardita ma affascinante – come se avesse idealmente gettato la maschera che aveva indossato, forse per compiacere (quantomeno in parte) i gusti del pubblico, un pubblico onnivoro ed insaziabile che pur tuttavia a Vienna finisce per abbandonarlo, preferendogli altri e ben più effimeri esponenti del mondo musicale. Per contro Stravinskij, dopo le dirompenti esperienze del periodo russo-impressionista e soprattutto dopo lo sconvolgente esito del Sacre, ecco che a inizio Anni ‘20 del ’900, dopo Les Noces e L’Histoire, con Pulcinella indossa la maschera del neo-classicismo, rimanendo di fatto costantemente fedele a se stesso, fascinoso e provocatorio, geniale e ammaliante.
Al di là degli assunti programmatici, il successo ha premiato orchestra, direttore e solisti, alla fine di una serata davvero memorabile. Al pianoforte Pierre-Laurent Aimard, pianista dalla tecnica sicura e dal suono cristallino, in qualche tratto addirittura un filino aspro (o forse era colpa dello strumento o della nostra posizione avanzata, subito sotto al palco); un’interpretazione – la sua – decisamente ‘classica’ volta a porre in luce il carattere marziale ed esuberante del Concerto K 503, in piena sintonia con Noseda e l’orchestra una compagine di primo livello, rivelatasi in gran spolvero e con ottime prime parti che non sfigurerebbero affatto in più note ed affermate formazioni. Un concerto tecnicamente non facile, disseminato di preziosità armoniche e di novità formali, fin dall’attacco del solista che ‘entra’ quasi esitando e con un frammento nuovo, anziché replicare pedissequamente l’esposizione orchestrale, un concerto innovativo, a suo modo, e che pure si inserisce nel gusto per il monumentale che avrà poi il suo culmine nel beethoveniano ‘Imperatore’. Un vasto concerto che, peraltro, scritto nella olimpica tonalità della ‘Jupiter’, ne anticipa certe atmosfere e anche certe soluzioni formali.
Il suono di Aimard è cristallino, nitido e pungente. Del tutto in asse con l’orchestra, frutto di una intesa pressoché perfetta col direttore, Aimard affronta i passi più impervi con ammirevole scioltezza e nonchalance, enfatizzando il noto tema (quasi leit-motiv del primo tempo) che strizza l’occhio alla ‘marsigliese’ e al tempo stesso con quella nota insistita pare presagire certo Beethoven sinfonico (il famigerato tema della Quinta). E l’assonanza con la ‘marsigliese’ Aimard la pone poi in evidenza, con sagace humour, nella bella cadenza prescelta (in assenza di cadenze originali di Mozart), ponendola in bella vista e declinandola vistosamente sotto il profilo melodico, per l’appunto come il noto tema poi divenuto inno rivoluzionario e nazionale. Qualcuno sostiene tuttora la tesi abbastanza improbabile di una derivazione dall’italiano Viotti, in realtà doveva trattarsi di uno spunto popolare, notissimo e frequente negli ultimi due decenni del ’700 e Mozart, da genio qual era, se ne appropriò con intelligente e rabdomantico intuito. Una lettura che ha colto bene l’esprit di questo primo movimento, quella di Aimard e Noseda, che hanno poi dato corpo ad un Andante molto composto, privo di inutili smancerie, come uno sguardo retrospettivo ad un’epoca ormai perduta, ma contemplata con sorriso sulle labbra. Da ultimo il brillante finale in forma di Rondò del quale Aimard – pianista in residence per questa edizione dello Stresa Festival e protagonista anche di altre future serate – proclama il tema assertivo perfettamente in tempo, senza quella (pur fascinosa) piccola esitazione che il sommo Serkin introdusse, poi seguito da alcuni altri interpreti, dunque mostrando di credere al versante classico di questo concerto e senza assegnargli troppe premonizioni sul côté pre-romantico. Ammirevoli i molti passi impervi a mani uguali e quelli a doppie ottave memori di Clementi che Aimard supera con ammirevole bravura.
Applausi convinti e un curioso bis che Aimard stesso introduce, e si tratta di un inedito frammento nella formulazione per pianoforte dalla stravinskijana Symphonie d’instruments à vent (quale modo migliore per traghettare alla seconda parte della serata?): tutto sfuggenti blocchi accordali ‘pensati’ in memoria di Debussy, quasi una sorta di ideale Tombeau (qualcosa ricorda la celeberrima Cathédrale) con dissonanze argute e pungenti, ma mai urtanti e da ultimo un (quasi) consonante accordo di do maggiore, lo stesso del mozartiano K 503.
Nulla di meglio dunque per introdurre un Pulcinella ‘integrale’ al quale Noseda ha dedicato una attenzione specialissima. Ammirevole la sua capacità di guidare l’orchestra negli insidiosi cambi di ritmo, disseminati lungo questo capolavoro che non si smetterà mai di ammirare (e di amare all’infinito). Una partitura – si sa – che alterna momenti tutto effervescente brio, sulla scorta degli spunti pergolesiani (invero assai più esigui di quanto lo stesso Stravinskij, Massine e soprattutto Diaghilev avessero voluto far credere, sicché è Stravinskij che ‘inventa’ il vero). E allora ecco quel mix di sguaiate tarantelle e languorosi intenerimenti il tutto condito dal pigmento stravinskijano che si traduce in dissonanze piccanti e boutades nella strumentazione (i contrabbassi con impegnativi e buffi tratti solistici, il trombone in un celebre passo che si lancia in comici e quasi pornofonici glissandi, gli sberleffi di fagotti e ottavino e molto altro ancora), giù giù sino alla girandola finale, davvero irresistibile, con quel tema continuamente iterato e sempre rinnovato grazie agli incessanti sfasamenti di accento. Preziosa presenza quella dei solisti, l’ottima Barbara Frittoli ammirata in ‘Contenta forse vivere’ e più ancora nel sospiroso ‘Se tu m’ami’, strepitoso come sempre il basso Nicola Ulivieri, dalla voce possente e dal seducente timbro, non meno ammirato il tenore Francesco Marsiglia, nei passi solistici, come pure nel duetto e nei due terzetti, soprattutto ammiratissimo in quella sorta di scioglilingua-nonsense in dialetto (‘Una te fa la nzemprece’) che pare l’incunabolo da cui partirono certo Britten e, più ancora, il Berio dei Folk-songs.
Inatteso e graditissimo bis (ma lo si poteva immaginare) e allora ecco il terzetto ‘Cosa sento’ dalle Nozze di Figaro. E così il cerchio si è chiuso con Mozart sull’epocale data del 1786. E non è che l’inizio di un festival destinato a protrarsi sino al prossimo 8 settembre (Russian National Orchestra, direttore Pletnëv e Lugansky pianista), e che annovera appuntamenti di grande appeal, dall’attesissimo recital di Pollini alle serate barocche con Modo Antiquo e lo specialista Sardelli, dagli abbinamenti di danza, arti figurative al violino di Francesca Dego e di Akiko Suwanai al Bach dell’Accademia Bizantina guidata dalle mani esperte di Dantone, l’arciliuto di Luca Pianca e le improvvisazioni organistiche di Wayne Marshall e molto altro ancora. Non c’è che l’imbarazzo della scelta per il pubblico che desideri confezionarsi il proprio programma ad hoc, comprese le incursioni all’Isola Bella ed all’Isola Madre nelle sempre fascinose cornici del Salone degli Arazzi o della Loggia del Cashmere, ovvero per coloro che – affetti da inguaribile bulimia musicale – desiderino seguire per intero il Festival (sono molti ogni anni gli stranieri) per tutta la sua durata.