di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
Un cast straordinario, un approccio musicale filologicamente ineccepibile, una regìa intelligente, con scene, costumi, video di grande impatto: questa in sintesi la chiave di successo per un Tamerlano di Händel che alla Scala non era mai approdato e che costituisce uno dei massimi raggiungimenti del teatro barocco. Quasi quattro ore e mezza di spettacolo, compresi i due intervalli, che hanno messo a dura prova la tollerabilità dello spettatore medio ma in compenso ha entusiasmato un pubblico attento e partecipe, commosso oltre ogni limite, alla fine, dalla scena del suicidio di Bajazet, come se l’atto inconsulto fosse stato compiuto da Placido Domingo stesso e avesse scatenato un fenomeno di lutto collettivo. E da Domingo partiamo per constatare come la presenza di un nome così noto abbia sicuramente giovato alla produzione in termini di affluenza di pubblico, almeno di quel pubblico che non è avvezzo ai nomi di Fasolis, di Mehta e Fagioli o della Schiavo e della Crebassa, i veri protagonisti di questa serata di successo. Che il grande tenore (qui impegnato in un ruolo ancora legato alla sua impostazione vocale di origine) abbia avuto qualche momento di smarrimento nel ricordare il testo del libretto, soprattutto nei lunghi e difficili recitativi, è peccato tutto sommato veniale. Meno gradevole certamente è stata la percezione di una vocalità e di uno stile estranei al repertorio barocco e soprattutto di una organizzazione vocale che oramai non permette a Domingo di affrontare parti così impegnative. La sua prestazione nel medesimo ruolo all’interno di produzioni non lontanissime nel tempo (ad esempio nel 2008 a Washington e nel 2011 a Barcellona) era stata da questo punto di vista molto più soddisfacente. Di contro la sua presenza sul palcoscenico è sempre rassicurante e rimane la testimonianza di una musicalità e di un istinto teatrale di altissimo livello, tanto che, come dicevamo, la scena finale dell’opera ha grazie a lui magnetizzato l’attenzione degli spettatori fino a sospendere per qualche istante la reazione di questi ultimi di fronte alla conclusione dell’evento: uno di quei momenti magici di silenzio che spiegano meglio di qualsiasi altra cosa il grado di coinvolgimento di un artista, sia esso un cantante o un solista di genio o un grande direttore d’orchestra.
Lo spettacolo firmato da Davide Livermore appariva sulla carta molto più provocatorio e “moderno” di quanto poi si è verificato in teatro. L’ambientazione durante il periodo della rivoluzione russa del 1917 e l’abbinamento tra i caratteri originali dei personaggi e altrettanti protagonisti di quel momento storico (da Nicola II a Lenin/Stalin, da Rasputin a Trotsky e così via) non ha per nulla disturbato o alterato più di tanto lo scorrere della vicenda. Alcune trovate sceniche, come quella, nel primo atto, del treno che ospitava il quartier generale di Tamerlano, dietro al quale scorrevano le immagini di un paesaggio innevato che determinava l’illusione del moto del treno stesso, erano realizzate con grande cura e correggevano con intelligenza quel senso di staticità che accompagna quasi sempre la messa in scena di un’opera barocca. L’utilizzo di architetture mastodontiche (il Palazzo d’inverno!) sono state rese possibile grazie alle dimensioni del palcoscenico della Scala, adatto secondo i collaboratori dello studio Giò Forma, a “pensare in 16:9”. Opere di Händel ambientate in luoghi ed epoche le più strane siamo abituati a vederle attraverso le frequenti produzioni d’oltralpe, spesso di pessimo gusto. L’allestimento scaligero punta invece sul gusto e la misura attraverso i quali queste operazioni più che legittime vengono compiute. Si è solamente notata una certa diminuzione dell’impegno registico e scenico con lo scorrere dello spettacolo, ossia un maggiore impatto visivo nel primo atto rispetto ai due successivi, cosa che può anche essere dovuta alla segreta forza di attrazione della musica e del libretto originale. Come se la pur poco credibile vicenda e le relazioni tra i vari personaggi avessero da un certo punto in poi preso il sopravvento sulla trasposizione moderna, quasi a testimoniare che i sentimenti di odio, di amore, di scoramento non hanno bisogno di shift spazio-temporali: sono tutti lì, anche tra le righe di un polveroso libretto in versi.
La direzione musicale di Diego Fasolis, artista per il quale non sono necessarie ulteriori presentazioni e che ha preso in mano il progetto di una sezione dell’orchestra scaligera dedicata alla cosiddetta musica antica, è stata esemplare anche se non ha convinto del tutto in termini di rapporti di sonorità per un teatro così difficile come è la Scala. Teatro che nacque quando già questo tipo di repertorio era passato di moda ed è quindi profeticamente strutturato per accogliere la musica del futuro. In Fasolis si ammirano peraltro straordinarie qualità di musicista e di entusiasta preparatore di orchestre dedicate a questo tipo di repertorio. E si ammira, non ultima, l’ostensione provocatoria della partitura al termine dello spettacolo, come a ribadire che il merito primario del successo è quello dell’autore.
Il successo della serata e diciamo pure la chiave di volta di questo allestimento risiede comunque in gran parte nel cast che, Domingo come caso a se stante, era rappresentato da quanto di meglio ci si possa oggi attendere. Non vogliamo suggerire classifiche che non avrebbero senso e che non renderebbero giustizia all’impegno e all’eccellenza di tutti e cinque i cantanti d.o.c. per questo tipo di repertorio. Un affetto particolare per Maria Grazia Schiavo, interprete magnifica del personaggio di Asteria che ha affrontato con la sua grande professionalità una parte che non disdegna il registro sovracuto in più occasioni. E uno per Franco Fagioli, che ci emoziona almeno fin dai tempi del Festival della Valle d’Itria e che ha rappresentato qui forse il miglior esempio di vocalista barocco dalle doti straordinarie proprio nel ricreare l’azzardo virtuosistico assoluto. Bejun Mehta ha già da tempo compiuto la meritoria azione di rendere del tutto naturale la scelta della propria caratteristica di registro in teatro: per lui si tratta non tanto di sfoggiare tutta la gamma di una voce miracolosa, ma di penetrare nel contesto del singolo personaggio per rivelarne le verità più nascoste. Cosa che non era per nulla facile nel dipingere un ruolo caratterialmente complesso come è quello di Tamerlano. Marianne Crebassa possiede la natura di un timbro inconfondibile e bellissimo coniugato a una duttilità assoluta che le permette di rivolgersi con naturalezza a qualsiasi ruolo. In tal senso ha reso alla perfezione, anche scenicamente, il carattere di un personaggio che va definendosi lentamente nel corso dell’opera. Christian Senn ha infine prestato la propria intelligenza vocale nel delineare la apparentemente marginale parte di Leone.
Un successo, lo ripetiamo, al di là delle aspettative ha premiato questo nuovo spettacolo che speriamo sia solamente il primo (a parte il già rappresentato Trionfo del tempo e del disinganno) di una lunga serie di appuntamenti händeliani.
Purtroppo va segnalata una grave pecca organizzativa della Scala: fare iniziare un opera di questa lunghezza alle 8 di sera vuol dire farla finire alle 24.30, quando la metropolitana ha terminato le sue corse e i taxi – nella settimana della moda – sono un miraggio. All’estero le opere terminano sempre in modo che gli spettatori possano fruire dei mezzi pubblici per ritornare a casa. Il Tamerlano avrebbe dovuto iniziare al massimo alle 19: per il motivo succitato il terzo atto ha visto la defezione di molti spettatori e fa specie che la sensibilità in fatto di orari non faccia parte del bagaglio culturale del sovrintendente, che fra l’altro proviene da un paese dove il rispetto degli orari è un must. Speriamo che un errore di questa portata non si ripeta.