di Luca Chierici
Con un allestimento sontuoso, come si conviene alla Scala, a una prima mondiale, allo stesso contesto evocato dalla nuova creazione, ha debuttato in teatro l’ultima fatica di Salvatore Sciarrino, Ti vedo, ti sento, mi perdo, opera in due atti, su libretto dello stesso Sciarrino, ispirata alla figura di Alessandro Stradella e alla sua musica. Personaggio che – come scrive l’autore nella sua pregnante presentazione contenuta nel programma di sala – è “…un protagonista assente … nel nostro paesaggio musicale e nella nostra consapevolezza, ancora a stento egli s’affaccia …”, lo Stradella è anche l’uomo che la tradizione, e la Storia, vuole dedito a una condotta libertina e alla fine assassinato da ignoti sicari. Tema non nuovo nello sterminato calderone del melodramma (Flotow, Niedermayer, Franck, …) e, nella sua accezione meno romanzesca, facilmente assimilabile a quelli che sono stati da sempre gli interessi di Sciarrino che parla, nei confronti di Stradella, addirittura di “musica fuori d’ogni maniera che oracola la sensibilità romantica e inventa il nocciolo della scrittura strumentale moderna”.
Attorno al nome di Stradella, personaggio sempre evocato e mai presente in scena, ruota tutta la vicenda che trova la sua ragion d’essere nella prova di una Cantata per soprano, coro e strumenti. Un Musico e un Letterato disquisiscono sia del promesso arrivo del chiacchierato musicista che della sua controversa vita sentimentale, evocando altri spunti che vengono generati dal contesto, dal tema della creazione musicale a quello della seduzione veicolata dalla musica stessa, come onde concentriche generate da un grave lanciato nell’acqua immobile di uno stagno. Sia il musico che il letterato parrebbero superficialmente figure anch’esse non nuove, che potrebbero evocare anche il tema della predominanza tra musica e parola e riportarci all’Abate Casti e a quello Strauss che con queste suggestioni e con i meccanismi del “teatro nel teatro” andava a nozze. In realtà il soggetto e le sue implicazioni più evidenti all’ascolto – ma non le più profonde – diventano un pretesto per convogliare nell’opera suggestioni ben più significative, come il mito di Orfeo, il canto delle sirene, il significato del trascorrere del tempo. Non si può peraltro prescindere, per una comprensione ampia di questo nuovo lavoro di Sciarrino, dalla lettura del magnifico saggio di Enzo Restagno che sviscera fino al dettaglio estremo ogni aspetto del testo e della musica, grazie però a un contatto unico e privilegiato con il compositore, e da quella del saggio di Gianluigi Mattietti che analizza con altrettanto dettaglio lo scorrere della partitura. Nella incomunicabilità (o nella scarsa comunicabilità) e nella possibilità di letture a più livelli risiede del resto quella che è una sempre più pericolosa tendenza della musica colta dei nostri tempi.
L’ascoltatore che sia a digiuno di tutte queste letture preparatorie e che conosca, sia pure per sommi capi, il percorso artistico di un musicista come Sciarrino, sarebbe però portato qui anche a parlare di “maniera” sciarriniana, quasi della prova di un musicista che oramai sembra guardare con un’ombra di compiaciuto distacco ai risultati del passato, innegabilmente originali. Si ascoltano infatti in questo lavoro ingredienti non nuovi, ferri del mestiere di un compositore eclettico sì, ma anche fedele ai propri amori di sempre. E agli effetti speciali del flauto (tremoli, jet-whistles e quant’altro venga offerto dalla passata sperimentazione), alle sillabazioni ripetute nei recitativi, i virtuosismi e le parodie canore, i contrasti sonori tra strumenti che insistono sulle regioni estreme dello spettro sonoro e tanti altri accorgimenti che traducono in suoni le meraviglie del barocco si sarebbero potute aggiungere altre idee: il pubblico che segue la musica contemporanea è sempre affamato di novità esclusive. Così come le raffinate citazioni musicali derivate dallo stesso Stradella e le reinvenzioni in chiave moderna delle sonorità dell’orchestra barocca facevano irrimediabilmente pensare a contaminazioni di un passato oramai lontano (Stravinskij, il Britten che si trova faccia a faccia con Purcell). Persino l’insinuante arpeggio discendente nel finale del Notturno in fa# maggiore di Chopin poteva evocare per i più smaliziati e irriverenti una reminiscenza del Boleslao Lazinski nella Fedora. Ma allo stesso tempo non si può che condividere l’entusiasmo e il “credo” di un musicista che vede in certe grandi figure del passato (oggi Stradella, in passato Gesualdo) il simbolo del terribile “scontro tra società e artista, qualora egli non si arresti ai margini di una posizione servile”.
Alla visionarietà musicale e teatrale di Sciarrino ha risposto convenientemente la regia di Jürgen Flimm, rispettosa dell’impianto scenico a tre livelli previsto dal compositore. Accanto a lui sono stati applauditi al termine della rappresentazione lo scenografo George Tsypin, che ha peraltro attinto a tematiche figurative e di architettura degli spazi non nuove (e come si può oggi inventare o reinventare ciò che è stato già illustrato infinite volte ?), la fantasiosa costumista Ursula Kudrna, il creatore degli effetti di luce Olaf Freese, la coreografa Tiziana Colombo.
La serata non avrebbe potuto riscuotere una unanimità di consensi senza la presenza di Laura Aikin, voce di una duttilità straordinaria che è stata capace di affrontare senza soluzione di continuità stili diversissimi tra loro, navigando tra il barocco originale e le ardue richieste sciarriniane. Accanto a lei hanno brillato Charles Workman (il Musico), Otto Katzameier (Il Letterato), Ramiro Maturana (il Giovane Cantore), le bravissime Maschere. Altrettanto applauditi i membri del Coro, quasi tutti provenienti dall’Accademia della Scala. L’orchestra del teatro dislocata in buca e soprattutto i solisti accomodati ai lati del palcoscenico sono stati protagonisti della parte strumentale dell’evento amorevolmente guidati dal giovane e poliedrico Maxime Pascal, direttore francese di punta che ha già alle proprie spalle un curriculum da capogiro. Pubblico numeroso e attento, in parte spaurito e titubante di fronte alla ricchezza di effetti e di stimoli che possono provenire da un complesso prodotto della musica dei nostri giorni.
Da tempo Sciarrino ci ha abituati a questa forma di “recitar cantando” in stile ventesimo secolo che forse meglio sarebbe definita come “parlar modulando”. Sulla qualità e validità di questa forma compositiva si è discusso a lungo e sarebbe inutile aggiungere ulteriori commenti. Personalmente non ne sono affatto entusiasta ma capisco che corrisponda al mondo moderno in cui viviamo. L’esile trama dell’opera riposa su una sorta di prova generale di uno spettacolo in attesa che compaia il compositore Alessandro Stradella che naturalmente – novello Godot – non si presenta. Ma la qualità dello spettacolo non riposa sull’ordito musicale ma sulla regia e messa in scena di Jürgen Flimm secondo un’interpretazione registica solo tenuemente correlata al libretto. Qui abbiamo una rivisitazione del teatro nel teatro con personaggi (e addirittura orchestrali sul palcoscenico) in abiti settecenteschi (ma anche seicenteschi) e una miriade di personaggi che affollano la scena dando luogo a piccoli intermezzi che si sovrappongono alla trama principale: inservienti, maschere, danzatrici, figuranti, clowns etc. Il tutto dà luogo a una sorta di carnevale godibilissimo su cui riposa il successo tributato da un pubblico non folto (e rarefatto nel secondo atto). Ma “un bel gioco..” e l’opera si prolunga eccessivamente, anche sfilacciata nel libretto che intreccia l’esile sviluppo dell’azione con considerazioni filosofiche e liriche del tutto innecessarie e scorrelate.
Quanto alla compagnia di “canto” (che non ha la possibilità di esprimersi come tale) va purtroppo segnalata la performance scadente del soprano (primadonna) Laura Aikin, dotata di una voce piccolissima e del tutto inadatta a interpretare i brani di alcune arie di Stradella inserite nello spettacolo in un grande teatro: semplicemente non si sente. Potrebbe forse cantare in un repertorio barocco in piccole sale ma di certo non alla Scala. Un plauso invece al giovane cantore Ramiro Maturana che intona perfettamente l’aria che chiude lo spettacolo. Quanto agli altri va purtroppo segnalata la dizione incerta in italiano di Charles Workman e Otto Katzameier, rispettivamente nei ruoli conflittuali di musico e letterato, una sorta di rivisitazione del “Capriccio” Strauss-Clemens (dove l’attesa frustrata della contessa è simile quella di Stradella nell’opera in questione) . Difficile giudicare gli altri e la direzione di Maxime Pascal a cui comunque va riconosciuto lo sforzo di tenere insieme un „partitura“ (o presunta tale) di difficilissima struttura.