Lo spettacolo di Michieletto passa al Teatro dell’Opera e partecipa a un discorso musicale di rara modernità: eccellenti Rustioni, Racette, Frontali e Urmana
di Francesco Lora
Dopo un Benvenuto Cellini trionfale, l’attuale salute artistica del Teatro dell’Opera di Roma è stata riconfermata da un nuovo spettacolo ambizioso: Il trittico di Giacomo Puccini, locandina pregiata nei nomi e onorata dai fatti, per sette recite (17-24 aprile). Discorso quanto più possibile svelto – ma il Regietheater pretende spazio – sullo spettacolo con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti: lo si conosce già dalle rappresentazioni del 2012 e 2013 al Teatro Reale di Copenaghen e al Theater an der Wien. Esso poggia su tre propositi e corrispondenti esiti: traslazione spazio-temporale, verso la contemporaneità, delle opere che compongono il trittico, con modifica dei riferimenti visivi ma non della drammaturgia né – spesso – della didascalia stessa; tensione di un fil rouge che colleghi Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, laddove le tre opere contrasterebbero deliberatamente per soggetto, contesto, linguaggio e sottogenere; cura attentissima del gesto, cogliendo e avvalorando ogni occasione di doppio senso espressivo o di controscena significativa.
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L’operazione riesce sui tre fronti, anche attraverso costumi altamente caratterizzanti e una scena comune, fatta di container ammassati: nel loro rimanere squallidamente serrati o dal loro fantastico dischiudersi risulta il mondo specifico di ciascuna opera. L’unico passo falso è avanzato in una lettura più ardita – ma alla resa dei conti anche superficiale e incoerente – della Suor Angelica. Com’è prevedibile, il monastero barocco diviene un istituto psichiatrico, dove le monache che hanno volontariamente scelto la vita claustrale, per vocazione santa o per semplicità d’animo, divengono a loro volta donne pazze o presunte tali, serene poiché inconsapevoli o ribelli poiché prigioniere, comunque tiranneggiate da un’opposta squadra di infermiere, badanti ed educatrici. In tale visione, però, si fa piazza pulita dell’aspetto più lancinante della tragedia: in un organismo femminile tutto alla pari, dove ciascuna monaca aiuta l’altra nella carità, dove ciascuna ha autorità incontestabile nel proprio ruolo, dove la punizione non potrebbe essere che simbolica, in poche parole dove ciascuna vive per scelta gioiosa, Michieletto abolisce infatti l’isolamento che riguarda la sola protagonista, unica a differenziarsi per il sapere aristocratico e per la sottrazione del libero arbitrio. Se Angelica è restituita come una pazza, come una schiava e come le altre, perché dunque l’infermiera dovrebbe affidarsi a lei per consigli erboristici, e perché – più in generale – il suo caso dovrebbe meritare più attenzione di quello delle restanti recluse? Non debole si mostra invece la soluzione di far arrivare il figlio settenne insieme con la Zia Principessa, di impedirgli l’accesso alla madre, di far credere ad Angelica che il figlio sia morto per castigo alla sua ribellione, infine di far correre il figlio sul cadavere della madre, accompagnato da una Zia Principessa dunque non sparita e forse pentita e certo turbata.
Parola ai musicisti, ora, e tanto più poiché attraverso di essi passa la legittimazione di quanto c’è di buono nel lavoro registico. Prova tra le sue migliori per il direttore Daniele Rustioni, che abolisce ogni zuccheroso effetto sentimentalistico affibbiato dalla tradizione a Puccini, e che unisce tre discorsi musicali differenti con fraseggi e amalgami ugualmente moderni, asciutti, scattanti, inesorabili. Tra le diverse via interpretative, questa è la più confacente e la più urgente ai giorni nostri, e non sarà forse un caso che solletichi orchestra e coro romani nel più vivo e nel più sano delle loro facoltà tecniche: in questo orizzonte, spiace a maggior ragione il mancato ripristino dell’avanguardistica “aria dei fiori”, a suo tempo espunta dalla Suor Angelica per volere dell’editore ma non dell’autore.
Tre, in particolare, le glorie nella compagnia di canto. La prima è Patricia Racette come Giorgetta e come Angelica: timbro non prezioso benché formato e personale, tecnica solidissima e studio indefesso, stile soberrimo e senza feccia veristica, recitazione tanto viscerale quanto cosciente; mostra la chiara e rara volontà di buttare anima, ugola e corpo sul palcoscenico pur di non lasciare inesplorato un solo tratto psicologico dei personaggi: il pubblico, ammirato, le corrisponde ogni onore. La seconda gloria è Roberto Frontali come Michele e come Schicchi: tutti lo conoscono come baritono vilain insostituibile nelle locandine belliniane, donizettiane e verdiane, e come interprete scaltrito e longevo ma più professionale che carismatico; ecco invece, da parte sua, una coppia di caratterizzazioni profonde, antitetiche e autonome, nelle quali si ascolta una nuova primavera vocale per smalto, risonanza e modulazione. La terza gloria è Violeta Urmana, che dopo la fase sopranile è ora tornata al registro mediano e osa addirittura la parte contraltile della Zia Principessa: anche qui ella vanta canto di gettata colossale, vellutato nella pasta e sorvegliato nel passaggio, per un personaggio tanto più tremendo nella sua moderna e sbrigativa freddezza, collocato in perfetta equivalenza tra il rispetto del testo originale e la declinazione teatrale di Michieletto.
Sterminato il resto della locandina: e come il regista cerca la continuità tra un titolo e l’altro, così gli stessi interpreti si ritrovano spesso in più di un atto. La coppia degli Amanti nel Tabarro, per esempio, è poi promossa a quella di Lauretta e Rinuccio nel Gianni Schicchi: Ekaterina Sadovnikova e Antonio Poli si disimpegnano con onore – un tantino genericamente: quello che intonano non è certo l’amore della vita – lasciando ad altri la ribalta canora e attoriale. Problematico Maxim Aksenov come Luigi: corso a rimpiazzare Roberto Aronica – rinunciatario dopo l’invito della Scala per La fanciulla del West: ubi maior… – egli annaspa nel tentativo di conciliare la fonazione di scuola slava con l’estranea scrittura pucciniana. Di vaglia il comprimariato, con una vivace Anna Malavasi sempre in scena nei panni della Frugola, della Badessa e della Ciesca, e con una serie di caratteristi capaci di dar luogo a indimenticabili cammei: in testa Matteo Peirone come Maestro Spinelloccio, Francesco Musinu come Ser Amantio e Domenico Colaianni come Talpa e Simone.
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