di Santi Calabrò
Molti capolavori del teatro musicale sono tali in quanto la materia drammatica è complessa e i personaggi hanno un percepibile spessore già nel libretto. In questi casi la densità delle implicazioni sopporta audaci trasposizioni cronologiche, ambientazioni ripensate con precisi e ben connotati riferimenti, fino a vere e proprie reinterpretazioni registiche che sconvolgono i tradizionalisti ed eccitano chi ama le letture rinnovate.
È propriamente la specifica “personalità” delle opere a permetterlo, favorendo lo scandalo di rendere plausibili ed interessanti, anche se talora irriducibilmente irritanti, gitane fuori contesto, walkirie in motocicletta, soldati medievali in divisa nazista ed elisir d’amore smerciati in spiaggia. Il barbiere di Siviglia invece ha la sua più tipica dimensione, come scrive Federico Tiezzi, in situazioni e personaggi «totalmente adrammatici: maschere sceniche che sono funzioni dell’astratto e geometrico moto ritmico della musica». Se è vero che «i personaggi mancano della sapienza costruttiva che avevano in Beaumarchais, hanno dalla loro parte un senso tutto italiano, goldoniano, della scioltezza». E quindi, continua il regista, «la musica compie da sola il prodigio drammatico». Non sorprende perciò, con queste premesse ben centrate sulla specifica cifra dell’opera, cioè sulla sua peculiare astrattezza che proietta in una dimensione meta-temporale le tensioni, storiche, sociali e psicologiche della fonte settecentesca, che la lettura di Tiezzi del capolavoro rossiniano si mantenga fresca a distanza di quasi trent’anni! Con delle modifiche, ma senza intaccare la sostanza, il ritorno di questo allestimento al Teatro di Messina, dopo il debutto nella stagione 1993-94 e una ripresa nel 2000, ha tutto fuorché il gusto dell’antiquariato. Sotto la direzione di Tiezzi e dell’aiuto regista Francesco Torrigiani, il cast si muove con sicurezza nella scena bella e funzionale di Pierpaolo Bisleri. L’ambientazione propone un segno che ricorda De Chirico, costumi eleganti (di Pasquale Grossi), pochi mobili essenziali e simbolici (su tutti una sedia maestosa che sembra incongrua e beffarda quando vi si accomoda Don Bartolo, e diventa trono quando ospita la dominatrice Rosina) e delle pratiche veneziane che un po’ separano gli spazi, un po’ alludono alle gabbie che all’inizio opprimono Rosina e molto si prestano al gioco dei personaggi di spiarsi l’un altro. Data questa impostazione, la nuova ripresa spinge con eleganza sulla corda metafisica grazie alle luci di Gianni Pollini, con colori nitidi su sfondo bianco tali da riproporre degli effetti alla maniera di Bob Wilson. Meno centrate appaiono le proiezioni sullo sfondo, belle ma un po’ troppo letterali rispetto a ciò cui rimandano (il venticello della calunnia, il movimento vorticoso della stretta vocale, un fiore accostato a un cuore con tanto di atri e ventricoli).
La parte musicale è sostenuta con sicurezza, convincenti scelte di andamento e cura del dettaglio dall’Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele, ben diretta da Giuseppe Ratti, e dal Coro lirico “F. Cilea” (diretto da Bruno Tirotta). Detto della buona recitazione del cast, anche la vocalità è di alto livello: Didier Pieri (Conte d’Almaviva) esibisce pregevoli nuances e una levigata omogeneità del timbro; Aya Wakizono mostra padronanza tecnica ed efficace proiezione della voce nel ruolo di Rosina, privilegiando l’aspetto lirico del personaggio su quello brillante; Gianni Giuga è un Figaro stentoreo e trascinante (nel ruolo si è alternato con Massimo Cavalletti). Il personaggio di Don Bartolo trova in Fabio Maria Capitanucci un’interpretazione di grande padronanza e senso del comico, mentre Andrea Concetti è un sornione Don Basilio, decisamente efficace anche nella sua aria, come anche la vivace Berta interpretata da Ilaria Casai. Completano degnamente il cast Lorenzo Barbieri, un ottimo Fiorello, e l’attore Antonio Lo Presti (Ambrogio). Teatro strapieno, grandi applausi e acclamazioni capaci di “bucare” le mascherine anticovid.