di Luca Chierici foto © Bresci&Amisano
Durante il recital che Maurizio Pollini ha tenuto lunedì scorso alla Scala, il grande pianista settantaseienne ha presentato al pubblico un programma affascinante che puntava sull’accostamento di due personalità complementari come erano quelle di Schumann e di Chopin. Ammirata l’impaginazione del programma e accertato che il beniamino del pubblico milanese, al suo ingresso in sala, si trovasse in condizioni fisiche direi eccellenti, si affacciavano alla mente alcune considerazioni preliminari nell’attesa di iniziare l’ascolto. Chopin, che teneva nella massima considerazione Bach e Mozart e che non amava Beethoven, non era solito esprimere giudizi sui contemporanei: Robert Schumann era da lui sicuramente stimato, ma al di là del giro delle famose dediche reciproche (Seconda Ballata, Kreisleriana) non si era andati molto in là. Dal canto suo Schumann non poteva certo ambire alla perfezione assoluta della scrittura pianistica del collega, alla sua creazione di mondi sonori nuovi e affascinanti che nascevano quasi miracolosamente, oltre che da una fantasia straordinaria, anche da un connubio perfetto tra mano e tastiera. Tombe bien sous le doigts si è sempre detto della scrittura pianistica chopiniana, mentre quella di Schumann poneva dei problemi non di poco conto. Eppure anche Schumann vanta dei primati stilisticamente notevoli, e lo dimostra ad esempio nell’Allegro op.8 resuscitato alla pratica concertistica proprio da Pollini una trentina d’anni fa. Pagina complessa, di difficile memorizzazione e di ferrea architettura, l’Allegro si apre con un impetuoso gesto pianistico che ricade sull’esposizione di un tema estremamente conciso, che forse presenta una vaga parentela con il tema del primo dei Gesänge der Frühe, altro momento straordinario, questa volta dell’estrema maturità del compositore, da Pollini tenuto in grande considerazione e proposto più volte anche al pubblico della Scala.
Il programma si era però aperto con uno dei saggi più conosciuti dal pubblico di tutti i tempi. “L’Arabesca dello Schumann”, come si diceva una volta, è da sempre nel repertorio di Pollini, ma l’altra sera si è compiuto un miracolo, ossia la trasformazione di una esecuzione che ben conoscevamo per la sua bellezza in un’altra ancora più affascinante che ricordava inconfutabilmente uno stile pianistico derivato da quello di Alfred Cortot, artista del resto assai amato da Pollini. Di Cortot non abbiamo una registrazione di Arabeske, ma possiamo bene immaginare come la potesse eseguire, e come potesse eseguire in particolare quell’ultima mirabile pagina che chiude la composizione, zum Schluss, una sorta di commiato in cui la scrittura schumanniana si fa parlante:
Schumann – Arabeske op.18 (finale) – Pollini M. – 260218 – Scala
È stato questo forse l’unico momento in cui Pollini – che qui ha evocato Cortot come se si trattasse di una seduta spiritica – ha mostrato un completo abbandono nei confronti della pura poesia, lasciando alle spalle il lucidissimo controllo formale: un atteggiamento che fa ben sperare per le prossime, speriamo numerose occasioni di ascolto. Valicato con superba padronanza tecnico-stilistica l’ostacolo dell’Allegro op.8, Pollini si è gettato a capofitto nella terza sonata di Schumann, o meglio in quel “Concerto sans orchestre” che risultò essere la prima edizione a stampa di un progetto nato in realtà in cinque movimenti (ossia i tre pubblicati, con l’aggiunta di ben due Scherzi). Ferma restando la nostra preferenza per la versione restaurata in cinque movimenti, come è ad esempio proposta ai nostri giorni da Sokolov, o di quella più comune in quattro, non si può negare una certa immediatezza di questa edizione che era stata peraltro imposta da Haslinger nel 1834 andando vistosamente contro le scelte dell’autore. Anche in questo caso si è assistito a un cambiamento notevole di prospettiva da parte del pianista, che pur riproponendo la versione da lui ritenuta più indicativa delle proprie scelte estetiche, ha maturato oggi una visione ancor più meditata di quel miracoloso tema con variazioni che racchiude alcune tra le più vertiginose idee musicali di Schumann. In questo frangente Pollini ha ceduto all’emozione incontenibile soprattutto nella chiusura del movimento, con quella ripetizione piangente dei tre accordi di fa minore che costituiscono poi una sigla inconfondibile di tutta l’op.14, poiché si ritrovano al termine del primo tempo e (in modo maggiore) a conclusione della sonata. Le variazioni sul tema di Clara vengono incastonate nella versione Haslinger tra due colossi di esecuzione temibilissima, che nella visione di Pollini non hanno mai convinto del tutto: una lettura sì bruciante ma talmente affrettata da risultare carente nei particolari e nell’articolazione del gioco pianistico. Del resto è molto difficile dire qui qualcosa di più convincente, sia poeticamente che dal punto di vista tecnico, di ciò che ha dimostrato di avere fatto in passato Vladimir Horowitz, il vero campione del recupero alla prassi concertistica delle variazioni (fin dagli anni ’40) e poi della sonata in quattro movimenti (dalla metà degli anni ’70).
Nel passaggio alla parte chopiniana del programma si sono ascoltati i due Notturni dell’op.55, separati purtroppo dagli applausi di un pubblico che poco sapeva rispettare le convenienze teatrali. Anche in questo caso Pollini si rivelava del tutto libero da preoccupazione formali e teso solamente a convogliare la propria attenzione sulla pura bellezza di queste pagine, come se sgorgassero naturalmente dalle sue mani. Problemi di controllo hanno non poco inficiato l’esecuzione della Sonata op.58 (soprattutto nel primo movimento, dove poco spazio veniva dato all’allargamento naturale della scansione in vista della declamazione del secondo tema, e nello Scherzo, fino a pochissimo tempo fa uno dei luoghi di maggior spicco del Pollini virtuoso). In compenso, di struggente poesia – quasi uno sguardo sulla fine delle cose – era l’interpretazione del Largo, elemento che tra l’altro è legato indissolubilmente a quell’ideale di cantabilità belliniana che è pur presente nella cifra stilistica del musicista polacco. Che Pollini riesca ancora a stupire l’uditorio anche attraverso un controllo tecnico straordinario della tastiera lo si è però tuttora capito attraverso il primo bis, lo Scherzo op.39 di Chopin, reso con la stessa bruciante immediatezza dei tempi antichi. Forse avevano veramente ragione coloro che parlavano in particolare del tomber sous le doigts di questa pagina irruente e lirica insieme: in questa stessa sala, l’ottantasettenne Artur Rubinstein, nel giugno del 1974, dava una dimostrazione leggendaria del teorema:
Chopin – Scherzo III do# op.39 (finale) – Rubinstein A. – 080674 – Scala
Con la successiva, drammaticissima esecuzione dello Studio op.25 n.11, altro cavallo di battaglia del pianista milanese, la serata si è conclusa con una incontenibile successione di applausi e di chiamate in scena.