di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Successo di pubblico e mediamente buoni i consensi da parte di giornali e ‘addetti ai lavori’ per la Carmen in scena al Teatro Regio di Torino lo scorso dicembre 2019 per undici recite. Si è trattato del seducente allestimento proveniente dal Lirico di Cagliari (premio Abbiati della critica, edizione 2006), allestimento che di fatto conserva a tutt’oggi la sua innegabile validità grazie ad una forte presa e immediatezza (dialoghi parlati proposti nella loro interezza, e dunque qualche prevedibile lungaggine). Il regista Stephen Medcalf localizza il capolavoro di Bizet nella Spagna franchista, al tempo della Guerra Civile: scelta coraggiosa, ma non banale né biasimevole, grazie alle coerenti idee poste in essere. E allora ecco il primo atto ambientato, come da copione, nell’assolata piazza a Siviglia popolata di soldati, donne cenciose ed altre eleganti, ragazzini e un fondale di muri sbrecciati, a rendere un senso di palpabile degrado. Di suggestivo impatto la ‘fuga prospettica’ che si apre sullo sfondo, quando appare la Manifattura Tabacchi e se ne vedono i banchi di lavoro con le ragazze intente a ‘smontare’. Senza dubbio efficaci, fin dall’esordio le scene – essenziali e minimal, ma non ‘pauperistiche’ – a cura di Jamie Vartan che firma anche i coerenti costumi, moderni, funzionali e gradevoli (un dettaglio: nell’ultimo atto Carmen è l’unica simbolicamente nero vestita, manca un tocco di rosso…); ecco poi la policroma taverna di Lillas Pastia, entro la quale i protagonisti ‘scendono’, dunque di poco al di sotto del piano del palcoscenico, con suggestivo effetto: taverna teatro di conturbanti danze ‘ralenti’ (sapienti le coreografie di Maxine Braham che prevedono un progressivo e molto calibrato accelerando di un i figurato sino al parossismo). Di spicco il fondale-velario che appare in apertura, con toro e banderillas stilizzate, fondale che si riaffaccia nella scena della seduzione, quale sorta di monito-premonizione. Coreografie che le ottime e variegate luci di Simon Corder (riprese da John Bishop), a sottolineare ora la cupezza fredda della notte ora i colori caldi e terrosi dell’Andalusia, con ‘stacchi’ repentini in sintonia col dipanarsi della partitura, amplificano molto. Ai più attenti non sono sfuggiti svariati dettagli, dalla gestualità di Don José che in apertura è intento a lucidare il fucile alla trouvaille dei fotografi che si accalcano, al termine del celeberrimo «Toreador», scaltri paparazzi pronti a immortalare, come cronisti assettati di scoop, il nuovo astro nascente dell’arena.
Il colpo d’ala dello spettacolo era nel terz’atto: al posto del covo dei contrabbandieri, una pista d’atterraggio di fortuna, segnalata da barili di benzina in fiamme e un monoplano appena atterrato nel buio della notte (se ne intuivano gli ultimi istanti della manovra, seguita dalla discesa del pilota recante il bottino del ‘colpo’). È qui che giunge Micaëla a recare la notizia della madre morente al riluttante Don José. Un terz’atto che ha regalato grandi emozioni. Climax emotivo, come occorre, nell’atto conclusivo in cui il pubblico idealmente si trova alle spalle della sottostante (invisibile) arena; una sorta di doppia quinta in primo piano che, riprendendo l’iniziale sequenza dei muri sbrecciati, impedisce la vista del femminicidio ‘in diretta’, perché si sa, di questo si tratta. Soluzione che, se a taluni è parsa bizzarra e inutilmente controcorrente, a nostro avviso ne esalta invece la drammaticità (in simbiosi coi piani drammaturgici della partitura); non convinceva invece Escamillo emerso come un fantasma verso il proscenio, idealmente alle spalle della folla ancora intenta ad applaudirlo dagli spalti dell’arena e con lo sguardo attonito di fronte all’accaduto: atto rivelatosi a suo modo claustrofobico e simbolicamente cupo, efficaci, peraltro, i ‘fermo-immagine’ quasi cinematografici o il rallentato della folla in apertura.
Buona nel complesso la performance del mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan, dal timbro scuro e sensuale e dalla gradevole presenza scenica, ancorché talora un filino impacciata (apprezzata nell’arcinota Habanera), alla quale nel corso delle repliche si alternava Martina Belli; bene il tenore torinese Andrea Carè, un Don José passabilmente sanguigno e sfaccettato quanto occorre (in alternanza Peter Berger, nel secondo cast); ammirata fin dalla sua prima aria e così pure nel duetto la Micaëla di Marta Torbidoni, capace di mille finezze, vincitrice, tra gli altri, del Concorso Europeo per Giovani Cantanti lirici di Spoleto, del premio “Accademia Puccini” di Torre del Lago Puccini e del premio “Franco Enriquez” come miglior soprano (nelle repliche, Giuliana Gianfaldoni); al debutto torinese il baritono Lucas Meachem (un Escamillo che avremmo voluto appena un poco più incisivo e a tutto tondo: suo ‘doppio’ nelle repliche Andrei Kymach). Allineati su un valido standard i comprimari, tra i quali da citare Sarah Baratta e Alessandra Della Croce (rispettivamente Frasquita e Mercédès, apprezzate nella scena delle carte, salvo qualche asprezza e certune stridule impennate). A completamento del cast Gabriel Alexander Wernick, Cristiano Olivieri, Costantino Finucci, Gianluca Breda, Aldo Dovo (rispettivamente Dancaïre, Remendado, Moralès, Zuniga e Lillas Pastia), nonché gli attori Marcello Spinetta e Giulio Cavallini. Taluno rilevava un qui di irrisolto nella regia, segnalando passaggi come di spettacolo ‘poco’ provato: minime imperfezioni di fatto scomparse nel corso delle repliche. Ma da rilevare anche momenti davvero riusciti, come la lotta e il dimenarsi delle sigaraie nell’atto primo e qualche piccola caduta di gusto (l’erotismo inutilmente esplicito nella scena della seduzione o le nacchere realizzate con cocci di piatti rotti o ancora Escamillo vestito di tutto punto da torero tra i fuorilegge).
Buona e a tratti forse fin troppo esuberante la direzione del giovane Giacomo Sagripanti – vincitore degli International Opera Awards 2016 quale giovane direttore emergente – che ha saputo sbozzare una Carmen a tinte vivaci e per ampie pennellate (sacrificando un poco i dettagli ed evitando per lo più il cesello) ben assecondato dall’Orchestra e dal Coro del Regio (maestro del coro Andrea Secchi): un plauso al coro di voci bianche (ben istruito da Claudio Fenoglio) e una complessiva ‘nota di demerito’ per la scadente dizione generale (solisti e coro).