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Full immersion nella musica del grande tedesco con l’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai diretta dal talentuoso direttore di origini russe
di Attilio Piovano
U na vera e propria full immersion nell’universo brahmsiano quella di giovedì 7 giugno scorso (e relativa replica del venerdì seguente) con l’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai presso l’Auditorium ‘Toscanini’ di Torino; e la sera di giovedì, come di norma, c’è stata altresì la seguita diretta radiofonica nell’ambito di Radio3 Suite. Sul podio la presenza di lusso di Semyon Bychkov che ha aperto nel segno del sublime Schicksalslied op. 54 per coro e orchestra su testo tratto dall’Hyperion di Hölderlin. All’esecuzione ha fornito un determinante apporto il Coro del Teatro Regio, ottimamente istruito da Claudio Fenoglio.
Bychkov ha colto appieno la dualità fascinosa del sublime Schicksalslied op. 54, innescando notevoli emozioni nel pubblico
Bychkov ha perfettamente focalizzato la peculiare stimmung dell’emozionante pagina brahmsiana, tutta giocata sul conflitto tra «calma olimpica del mondo divino e affanno quotidiano della stirpe umana», puntando dunque, molto opportunamente, sulla contrapposizione di sonorità delicate, tenui e sommesse, plaghe quiete, calme, serafiche e colori ambrati per la prima parte del testo – quella per così dire paradisiaca – e ben più infuocati accenti per i versi intesi a delineare, con icastica pregnanza, dopo una vera e propria lacerante cesura ed una singolare impennata in orchestra, gli umani turbamenti e le inquietudini così in sintonia con la più tipica temperie romantica. In questa contrapposizione tra sguardo verso la classica compostezza di un passato idealizzato ed anelito all’infinito, al futuro, nella ricerca fin disperante di un impossibile equilibrio, c’è davvero tutto Brahms. E Bychkov, ben assecondato dalle ottime prima parti e dalla pasta ben amalgamata delle voci corali, ha colto appieno la dualità fascinosa di tale capolavoro, innescando notevoli emozioni nel pubblico, laddove la pagina brahmsiana ‘decolla’ in aderenza a quell’avversativo: «Ma nostra sorte / È in luogo nessuno posare; / Dileguano, cadono / Soffrendo gli uomini / Alla cieca, da una / Ora nell’altra / Come acqua da scoglio / A scoglio gettata / Per anni nell’incerto giù». Ne è emersa una lettura coinvolgente, composta in apertura, Lento e struggente e così ancora in chiusura, dove il Lied stinge nuovamente entro una riconquistata rarefazione, ma nel contempo fiammeggiante e veemente laddove occorre, a rendere il senso ineluttabile del fato, del destino appunto, cui allude il titolo della pagina venuta alla luce nel 1871.
Applaudita e ammirata anche la strepitosa interpretazione del baritono Matthias Goerne, voce protagonista dei Quattro canti seri op. 121
In chiusura di serata Bychkov ha diretto la Quarta Sinfonia in mi minore op. 98 raccogliendo come frutto prezioso il tono singolarmente cameristico dell’Allegro ma non troppo, sicché tendeva (e come dargli torto) più a sfumare ed a smussare, evitando ogni possibile asprezza o scossone, stemperando il tutto in tempi dilatati e con sonorità delicate. Idem dicasi del soave Andante moderato, una delle pagine più alte dell’intero lascito brahmsiano, con quelle soavi mezze tinte e quei profili deliziosi. Per contro climi cavallereschi nel vibratile ed assertivo Scherzo (Allegro giocoso). Da ultimo la Ciaccona (ovvero Passacaglia) che sostanzia il movimento conclusivo (Allegro energico e passionato) a testimoniare quell’amore per l’arte della variazione cui Brahms rese omaggio in varie altre pagine: pianistiche (le Händel op. 24» e le Paganini op. 35), come pure orchestrali (le superbe Variazioni sopra un tema di Haydn op. 56). Pagina nella quale Brahms procede come per cerchi concentrici, con superba alchimia, dal piccolo al grande, dal poco al molto, dal dettaglio alla visione d’insieme, dal pianissimo al fortissimo. Bychkov (dirigendo a memoria con il suo consueto gesto plastico ed efficace) ha centellinato con precisione e puntualità dipanando con coerenza e chiarezza la complessità dell’architettura brahmsiana; appena qualche impercettibile squilibrio dinamico tra le parti, laddove gli ottoni parevano sovrastare talora di un filo la delicatezza dei legni, ma di neo veniale si è trattato entro una lettura di ammirevole bellezza.
A centro serata campeggiavano i Quattro Canti seri op. 121 del 1896 su testi biblici (Ecclesiaste, Siracide e Lettera ai Corinzi), in origine per baritono e pianoforte, eseguiti per la prima volta a Torino in versione strumentale nella valida trascrizione per grande orchestra di Detlev Glanert che interpola altresì i singoli numeri con preludi e interludi di sua libera invenzione. Voce di lusso lo strepitoso baritono Matthias Goerne lungamente applaudito e ammirato (così venerdì, ma già la sera innanzi era stata festa grande). Colori plumbei per il Primo Canto, premonitore di Mahler, pagina di ipnotica cupezza, di nordica austerità e desolazione, con quinte iniziali assai ‘beethoveniane’ che ne amplificano le potenzialità. Analoghi colori per il Secondo Canto, appena un poco più lirico in direzione di una certa qual ‘rassegnazione’, mentre il Terzo (su testo del Siracide) si ammanta di accenti alquanto più pacificati. Infine, in un vero e proprio climax espressivo ed emotivo, l’interpertazione dolce e suadente del celeberrimo testo paolino («Se anche parlassi le lingue degli uomini degli angeli, ma non avessi l’Amore, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna»). Specie nell’estrema parte di questo Quarto Canto la scrittura di Brahms si fa soave e rasserenante: e dire che il musicista amburghese già era minato dalla malattia mortale, sicché davvero questi Quattro Canti seri (vera e propria meditazione sui temi ultimi del transitus vitae) paiono il contraltare degli organistici Preludi a corale op. 122 scritti ‘in morte’ dell’adorata Clara Schumann, l’amica e confidente artistica di una vita intera. Goerne – eleganza, timbratura eccellente, fraseggi perfetti, aderenza costante al testo – ne ha dato un’interpretazione indimenticabile e fitta di rifrazioni, offrendo il destro di riflettere inoltre, in sintonia con la superba ‘versione’ brahmsiana, sul tema cristiano (e paolino) delle «tre cose» che davvero «restano: Fede Speranza e Amore». La sottolineatura di Paolo («di tutte più grande è l’Amore») riceve infatti singolare rilevanza da parte delle messa in musica di Brahms. Brahms di fatto credente e pur laico. Che fosse credente nel senso più ampio ed umano del termine (vale a dire non confessionale in senso stretto, lungi da ogni bigottismo di sorta) basterebbero a dimostrarlo il Deutsches Requiem, in primis, ma così anche i citati preludi organistici. E così a taluno degli ascoltatori è parsa un poco strana (se non indebitamente inopportuna e di parte) un’asettica e ostentatamente disincantata sottolineatura del programma di sala che recita espressamente: «Chiude la raccolta un Lied che porta in scena anche il tema dell’amore: quasi come se il sentimento intenso fosse in grado di allontanare ogni inquietudine dell’esistenza. Brahms – argomanta l’estensore del testo – sembra condividere quest’idea, lasciando alla musica il compito di illudere l’uomo con materna dolcezza». Ora che – laicamente – di pura illusione possa trattarsi, ognuno è libero di professarlo, ci mancherebbe. Che l’inquietudine costituisca l’essenza ultima del vivere umano (massimamente dell’uomo moderno, preconizzato da Brahms) è altrettanto condivisibile. Che Brahms da quell’idea squisitamente cristiana dell’Amore abbia attinto spunto per una pagina non solo fortemente ispirata, ma anche spiritualmente densa è non meno fuor di dubbio, ed è circostanza di innegabile importanza (per credenti e non), l’unica che conti veramente quanto a valore artistico e relativo riverbero emotivo.
Da ultimo: gli interludi e preludi ‘pensati’ dal contemporaneo Glanert appaiono in realtà piuttosto pleonastici ed esornativi: incorniciano sì l’originale brahmsiano, pur tuttavia insinuandovi un che di stilisticamente difforme (certo intenzionale), in chiave verrebbe da dire quasi post-espressionista. E ci può anche stare, benché forse, la semplice orchestrazione dell’originale realizzata dal musicista in luogo delle altre solitamente utilizzate, risulti in definitiva efficace di per sé, non abbisognando affatto di aggiunte.
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