Ritratti • Al suo terzo lavoro per orchestra, il compositore si conferma una delle personalità musicali tra le più interessanti del panorama internazionale contemporaneo. Pochissimo presente nei cartelloni italiani, al festival di Donaueschingen ha avuto l’onore del concerto di chiusura con l’applaudito Blut
di Gianluigi Mattietti
Quando si parla di fuga dei cervelli dall’Italia, si pensa ai giovani scienziati, ai ricercatori nel campo della microbiologia, o dei superconduttori. Ma ci sono anche i musicisti e soprattutto i compositori. Un giorno i manuali di storia della musica parleranno della diaspora, a cavallo tra XX e XXI secolo, dei compositori italiani nei vari paesi d’Europa e del mondo. Compositori di successo, di valore riconosciuto ovunque, ma senza chances in patria. Uno di questi è Aureliano Cattaneo, che ha deciso di andare a vivere a Madrid. Per farsi un’idea, basta scorrere l’elenco delle commissioni e delle esecuzioni che ha avuto negli ultimi anni (Helsinki, Berlino, Donaueschingen, Hannover, Ginevra, Salisburgo), ricordare il successo dell’opera La philosophie dans le labyrinthe, su libretto di Edoardo Sanguineti, presentata alla Biennale di Monaco nel 2006, guardare gli impegni futuri: nel 2013 ci sarà a Ginevra la prima di Parole di settembre (libro I) ancora su testi di Sanguineti (dedicati ai quadri di Andrea Mantegna); l’intero ciclo (in tre parti) sarà poi presentato in forma semiscenica nel febbraio del 2014 al Wiener Konzerthuas, con il soprano Claron McFadden, il controtenore Daniel Gloger, il baritono Otto Katzameier, e il Klangforum diretto da Emilio Pomarico; lo stesso anno ci saranno altre due prime, un nuovo lavoro scritto pezzo per le Percussions de Strasbourg, e uno per l’Ensemble MusikFabrik, che sarà eseguito a Colonia. In Italia, niente.
Il trentottenne compositore, allievo di Carlo Landini, Pippo Molino e Sonia Bo, e poi di Gérard Grisey e Mauricio Sotelo, forte di numerosi riconoscimenti internazionali – l’ultimo dei quali è il Förderungspreis di Salisburgo (la cerimonia è prevista per il 3 marzo 2013, alla Biennale di Salisburgo) -, insegna anche all’estero: dal 2010 è infatti professore di analisi e composizione alla ESMUC (Escuela Superior de Musica de Catalunya) di Barcellona. E a Donaueschingen ha avuto l’onore del concerto di chiusura (insieme a Bernhard Gander e a Franck Bedrossian), con un lavoro per orchestra, intitolato Blut, che è stato uno dei più riusciti e dei più applauditi di tutta la rassegna. Questo pezzo, che prevede anche un trio di solisti, formato da pianoforte, sassofono e percussioni (il Trio accanto), è solo il terzo lavoro per orchestra del compositore di Codogno, dopo il Violinkonzert (eseguito a giugno del 2008 a Berlino con Viviane Hagner e la Konzerthaus Orchester diretta da Lothar Zagrosek) e Selfportrait with orchestra (diretto da Emilio Pomarico, alla guida dell’Orchestra sinfonica del SWR, al Festival Musica di Strasburgo nel 2010).
Rispetto ai due lavori precedenti, Blut rappresenta una svolta importante, il tentativo di riappropriarsi di una forma sinfonica: quelli erano infatti caratterizzati da una certa frammentazione, dall’attenzione maniacale per il minimo dettaglio, che costituiva poi anche il fondamento della grande sottigliezza della scrittura timbrica; Blut è invece costituito da un unico ampio movimento, organico, fortemente direzionato, interamente gravitante intorno ad un suono fondamentale, il do centrale, che diventa il perno, il fil rouge di tutta la composizione: «Ho avuto l’idea di un Grundton, di una nota principale che passa attraverso tutto il pezzo.
È il do centrale, articolato in moltissimi modi, come linea o come parte di accordi che ruotano in continuazione intorno a questo suono. L’idea di costruire un grande arco formale, andava un po’ contro la mia naturale tendenza alla frammentarietà. Ma ero arrivato a una specie di vicolo cieco con questo tipo di scrittura. E volevo in qualche modo obbligarmi ad andare verso altre direzioni, pur mantenendo sempre la mia personalità». Per uscire dell’impasse della frammentazione, decisivo è stato lo studio e l’approfondimento analitico della musica di Mahler, che ha offerto al compositore non solo un modello di sviluppo e di articolazione formale su ampie arcate (realizzato a partire da “cartoni” preparatori, cioè schemi molto particolareggiati dell’evoluzione dei materiali all’interno della grande forma sinfonica), ma anche due cellule musicali (entrambe imperniate sul do), inserite come citazioni in due momenti clou del pezzo: le prime due note dell’Adagietto della Quinta Sinfonia (Do-La), affidate proprio all’arpa, e collocate nella sezione introduttiva, proprio quando, dopo una situazione turbolenta e confusa, emerge per la prima volta il do come suono principale; e l’attacco del Lied «Ich bin der Welt abhanden gekommen» dai Rückert Lieder (Si bemolle – Do), inserito nella parte finale del pezzo, all’interno di un dialogo tra sassofono baritono e corno inglese, che si snoda su uno sfondo rumoristico simile a quello inziale: «La musica di Mahler è stata per me una scoperta. Non ho scritto di queste citazioni nel testo di presentazione, perché sono citazioni molto nascoste, e perché altrimenti l’ascolto sarebbe stato viziato da questa indicazione. Non volevo mettermi nel solco della tradizione tardoromantica tedesca». Il testo scritto dal compositore non riporta quindi queste indicazioni, ma anche sul resto è solo allusivo, e dal carattere poetico.
Blut: sangue che scorre nelle vene
filo rosso che ci guida dentro il labirinto
una nota che scorre attraverso tutto il pezzo, un filo rosso che lega la struttura
liquido che prende forma quando si costringe dentro un contenitore
materiale che prende forma quando lo si mette dentro una struttura
Tre solisti, un’orchestra. Dialoghi intrecciati.
Musica per orchestra che si dissolve in musica da camera.
Musica da camera che si apre all’orchestra.
Strumenti in eco, eco di strumenti.
All’ascolto emergeva chiaramente questa idea di fluidità, di una sostanza orchestrale molto articolata, duttile, trascolorante, ma basata su elementi semplici, chiaramente identificabili, capaci di essere manipolati e di assumere, senza traumi, forme diverse. L’idea della musica come sostanza liquida è del resto ricorrente nel pensiero del compositore (che ha intitolato Liquido anche un suo quartetto per archi): «È l’idea di un elemento liquido che ha la forma solo quando lo si mette in un recipiente, in modo naturale. Anche un Do è un materiale evidentemente semplice, neutro, che può assumere diverse forme a seconda dell’oggetto che lo contiene: anche questa è l’idea del liquido, l’idea del sangue». A Cattaneo interessa anche costruire forme musicali ambigue, incrociando processi, materiali, stili differenti, e fa risalire questa sua idea di ambiguità al suo amore per la musica di Alban Berg: «Berg per me è un autore fétiche da quando sono studente. Lo ho studiato moltissimo. Alcune sue idee sono germinate nell’avanguardia, alcune situazioni della Suite Lirica ricordano certe soluzioni timbriche di Ligeti, certe idee dello sviluppo temporale anticipano alcune intuizioni di Grisey. È un autore molto fecondo, e mi è sempre interessato per questa dualità, per l’ambiguità tra l’elemento razionale e quello irrazionale, per gli esiti romantici, molto espressivi della sua musica, che vanno in contro circuito con la costruzione formale molto calcolata, con il controllo matematico delle proporzioni. Berg ha molte sfaccettature, e questo mi ha sempre affascinato».
È l’idea di un elemento liquido che ha la forma solo quando lo si mette in un recipiente, in modo naturale. Anche un Do è un materiale evidentemente semplice, neutro, che può assumere diverse forme a seconda dell’oggetto che lo contiene: anche questa è l’idea del liquido, l’idea del sangue
In Blut, Cattaneo ha cercato la massima variabilità anche nel ruolo affidato ai tre solisti, che talvolta si contrapponevano all’orchestra, con una scrittura molto virtuosistica e idiomatica, altre volte si integravano molto “fluidamente” con essa. Un’orchestra dalle tinte scure (nell’organico mancavano del tutto i violini), con un trattamento spesso cameristico, oppure giocato sugli echi delle parti solistiche (affidati a due pianoforti verticali, due sassofoni e tre percussionisti): «È un’altra mia ossessione, quella del doppio, della duplicazione che crea un labirinto di specchi, di giochi di eco nei materiali orchestrali». Incrociando tutte queste possibilità ne veniva un risultato musicale pieno di seduzioni, una materia orchestrale agile, elastica, in continua evoluzione, piena di progressioni e movimenti spiraliformi, sottolineati con grande sensibilità musicale nell’esecuzione di François-Xavier Roth sul podio dell’Orchestra sinfonica del SWR di Baden-Baden e Friburgo. Una materia armonicamente ariosa, illuminata – in maniera talvolta sinistra – da una sottile scrittura microtonale, punteggiata da zone bruitistiche, stridenti, piene di risonanze metalliche, e sempre pronta a raddensarsi, a diventare incandescente, a sprigionare energia, dando vita a violenti gesti sinfonici, anche molto teatrali, di grande forza emotiva. Ma tutto solidamente costruito. Da vero sinfonista.
© Riproduzione riservata