[wide]

[/wide]
Concerti • Successo di critica e di pubblico per il recital milanese del giovane pianista ucraino, impegnato in un arduo concerto che affiancava le Diabelli di Beethoven alle Variazioni Paganini di Brahms
di Luca Chierici
N ell’osservare il quasi trentenne Alexander Romanovsky alla tastiera si è portati a ricordare certe fotografie del giovane Horowitz, o la smilza figura di un altro grande pianista oggi in carriera, il polacco Rafal Blechacz. Le somiglianze fisiche tra due artisti non possono concorrere a definire un parametro di giudizio relativo al loro operato, è ovvio, ma Romanowsky ha con questi due personaggi davvero molte cose in comune. Con Horowitz una tecnica di straordinaria chiarezza, un suono penetrante e bellissimo anche nei passaggi che richiedono un volume di suono eccezionale, e quella giusta propensione al rischio che permette di giungere a un risultato espressivo convincente, travalicando i limiti di una esecuzione solamente corretta ed ‘educata’. Con il secondo la grande serietà professionale e l’umiltà nei confronti della musica, al servizio della quale un vero artista è sempre e comunque chiamato a porsi. Romanovsky aveva impressionato il pubblico competente ai tempi della sua vittoria al Concorso Busoni del 2001, a soli 17 anni: si trattava di un ragazzo che quattro anni prima aveva affrontato con la famiglia non pochi sacrifici per seguire dalla nativa Ucraina il proprio insegnante Leonid Margarius, che nel 1997 aveva accettato un posto di docente presso la prestigiosa Accademia di Imola. Il premio al ‘Busoni’ apre a Romanovsky le porte verso una carriera internazionale di prestigio ma non sorretta da campagne mediatiche dirette a sottolineare aspetti divistici che in lui, per fortuna, sono completamente assenti. Per il pianista che dall’anno scorso ha ottenuto la cittadinanza italiana contano i risultati conquistati sul campo, nelle sale da concerto, attraverso l’incisione di alcuni dischi importanti realizzati tramite l’interessamento preveggente della Decca.
Avevamo ascoltato Romanovsky recentemente alla Scala, dove la sua proposta della Rapsodia su un tema di Paganini di Rachmaninov si era conquistata il plauso unanime di critica e pubblico, e con grandi aspettative lo abbiamo seguito l’altra sera in un programma di straordinario impegno nel contesto della stagione della Società dei Concerti di Milano. Un programma che accostava, discutibilmente, due cicli di variazioni tra loro del tutto differenti, le Diabelli di Beethoven e le Paganini di Brahms. Una scelta che tra l’altro rispolverava l’antica diatriba relativa alla congruenza tra interpreti di estrazione slava e repertorio austro-germanico. In effetti Romanovsky doveva dimostrare in un sol botto di saper padroneggiare le complesse geometrie del capolavoro beethoveniano e il quasi impossibile virtuosismo brahmsiano che ha rappresentato e rappresenta tuttora una sfida per intere generazioni di pianisti. Il compito è stato portato a termine felicemente senza ricalcare le orme tradizionali della grande scuola russa che vedeva in Richter l’esponente di riferimento per la lettura delle Diabelli e in Gilels il punto di arrivo per le Variazioni Paganini. Richter restituiva delle Diabelli il lato severo, formale, attraverso una esecuzione asciutta che non dava spazio a indugi espressivi; Gilels aggrediva le Paganini con la potenza di una tecnica digitale davvero ‘d’acciaio’, seguendo in questo la visione che tradizionalmente di questo lavoro brahmsiano aveva nell’800 l’entourage pianistico di Clara Schumann e Carl Tausig.
Romanovsky ha spiazzato l’uditorio con una lettura di straordinario impatto della composizione beethoveniana, attenta forse più all’aspetto virtuosistico che a quello formale. A tratti ci ha ricordato l’impeto e la perentorietà del giovane Pollini, che all’epoca delle prime presentazioni in pubblico delle Diabelli (1976) lasciava l’ascoltatore addirittura annichilito al termine di un percorso di ascolto intellettualmente così impegnativo. Romanovsky non raggiunge i livelli di approfondimento analitico di Pollini e forse neppure l’assoluto rigore tecnico ma insinua nella sua performance un fascino timbrico del tutto inedito e una sensibilità non comune nell’evidenziare le caratteristiche peculiari di ogni numero della raccolta. Ancora più impressionante è stata la sua esecuzione delle Variazioni Paganini, che evocava la ricerca di suono e il fascino ammaliante delle famose prove di Benedetti Michelangeli, con alcune punte di eccellenza assoluta in momenti temibilissimi quali i numeri dedicati alla tecnica del glissando in ottave o delle ottave cieche. E il pianista russo è riuscito, al termine del concerto, a vincere del tutto la sfida della serata con due proposte che sembravano fatte apposta per suscitare obiezioni. Il Notturno in Do Diesis minore di Chopin, trasudante rosolio quando cesellato dal pianista cinese oggi alla moda, diventava con Romanovsky un modello di severa espressività, mentre lo Studio in Re Diesis minore di Skrjabin evocava fin quasi all’immedesimazione la straordinaria lettura horowitziana, miscela di slancio virtuosistico, pathos irrefrenabile e di strazianti memorie.
© Riproduzione riservata