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Opera • L’opera di Verdi in scena a Genova con buon successo. Regia all’insegna della tradizione, ma ben fatta
di Ilaria Badino
Venerdì scorso il sipario del Carlo Felice s’è schiuso lasciando subito adito alla rosea speranza di ascoltare un Rigoletto di buon livello. Ad accenderla, il tenore Jean-François Borras, il quale esordisce con una spavalda «Questa o quella», sfoggiando un timbro giovanile, fresco, assai gradevole; i rapidi guizzi in acuto sono risolti con agio estremo, e la morbidezza d’emissione è apprezzabile qui come nel di poco successivo scambio di battute con la Contessa di Ceprano, in cui s’ammirano soffuse smorzature nel segno del delineamento del personaggio come tenero (ma subdolo) amante più che come arido seduttore.
Per ottimizzare i tempi di passaggio dal primo al secondo atto – talmente brevi da rendere inutile un vero e proprio intervallo, che avrebbe soltanto sbrindellato il flusso del dramma –, il cambio di scena è avvenuto a vista suscitando gli applausi ammirati da una parte degli spettatori, i quali hanno così avuto modo di osservare la vastità e le potenzialità di solito nascoste di uno dei palcoscenici più ampi e ricchi di risorse di tutta Europa. Ci si trova ora nei pressi della casa di Rigoletto, dove si consuma il suo primo, inaspettato e fatale incontro con il ruvido Sparafucile.
Andrea Mastroni sfoggia vocalità florida ed imponente, che ricorda talvolta quella del giovane Scandiuzzi; la gamma di note prevista dalla non semplice parte del sicario borgognone è controllata tramite sapiente dominio nella sua interezza a partire, nel duetto con il protagonista, dai picchi acuti su cui sono scandite le prime tre sillabe del proprio nome fino al temuto Fa grave finale, protratto tenacemente sonoro per un tempo quasi interminabile (e ciò è da intendersi, ça va sans dire, nella sua connotazione positiva). Pasta vocale densa e succosa, anche se un poco venata d’acidulo, quella della bella Nino Machaidze, dalla pronuncia non sempre perfettamente intelligibile (complice la tendenza astraente insita nella corda sopranile), ma dotata di un’intelligenza interpretativa che la porta a cesellare le frasi per mezzo di suggestive differenziazioni dinamiche: il risultato è quello, molto verdianamente autentico, della piena aderenza del cantato all’accadimento scenico. Molto ben eseguito il duetto «È il sol dell’anima», dove, però, più ancora del soprano georgiano s’ammira il velluto della chiara tenorilità di Borras, il quale raggiunge l’empireo con vette di vibrante squillo da un lato e squarci di squisito, lindo lirismo dall’altro.
Ineffabile la concertazione di Carlo Rizzari, particolarmente efficace nel ricercare felici riscontri tra orchestra e coro in improvvisi sbalzi al forte o, per contro, di diminuzione subitanea del volume strumentale, alternando questi momenti di netta contrapposizione a passaggi di più dilatata ed aerea delicatezza. Una gestione, quindi, assai oculata delle dinamiche, sorretta anche da agogiche sempre stimolanti, se si eccettua quella che ha contraddistinto il celeberrimo «Sì, vendetta, tremenda vendetta». Infatti il brano, il cui esplicito modello risiede nella cabaletta rossiniana «L’ira d’avverso fato» sia nel proposito ultore che, da un punto di vista più squisitamente musicale, nella linea melodica e nell’andamento concitato – ulteriore glossa: il Cigno di Pesaro con il proprio Otello (1816) v’arrivò con trentacinque anni d’anticipo sul primo titolo della cosiddetta “trilogia popolare” (1851) –, è risultato scevro dell’umiliazione fatta vortice che ad esso si confarrebbe. Tutto questo fors’anche per venire incontro al salvatore di questa prima genovese, id est Alberto Gazale che, chiamato last minute a sostituire il previsto Lado Ataneli, ha dovuto interrompere temporaneamente le prove di un Trovatore a Stoccolma per giungere nel Belpaese in una corsa transeuropea non certo agevole né per distanza né per tempistiche. Fortuna che il ruolo gli scorre nel sangue, essendo egli forte delle tante precedenti interpretazioni del Gobbo: il baritono sassarese si palesa dunque sin dall’inizio padrone del palcoscenico, abile nello sfaccettare da una parte il cinismo superficialmente cortigiano e, dall’altra, il cieco affetto per la figlia che monta in sempre più loquace sofferenza. È inoltre interessante notare come il teatro genovese porti in scena, nel corso di una medesima stagione, le tre parti verdiane tenute a battesimo da Felice Varesi – Macbeth (1847), Rigoletto (1851) e Giorgio Germont nella Traviata (1853) –, uno dei più acclamati esecutori del repertorio del bussetano quando questi era ancora in vita. Il critico musicale Gino Monaldi afferma che, nelle opere del terrigno Verdi, Varesi trovò «quel non so che di violento, di febbrile e quasi di aspro e selvaggio» che ben rispondeva alle sue doti naturali d’interprete in senso lato. E qui la mente non può non volare all’infuocato arioso «Cortigiani, vil razza dannata», che le parole sopra citate descrivono alla perfezione.
Annunziata Vestri prestava voce brunita e corpo generosamente esibito, nonché seducentemente profferto a Maddalena, ragazzaccia di buon cuore. Autorevole il giusto la tormentata maledizione del Monterone di Fabrizio Beggi; nella media gli apporti dei comprimari, eccezion fatta per le dimenticabili prove di Roberta Cotrozzi come Giovanna e di Elisabetta Valerio, stridulo paggio della duchessa.
Regia – avvalentesi di scene e costumi oleografici ma di bell’impatto visivo, firmate le prime da Enrico Musenich e i secondi da Regina Schrecker – all’insegna della tradizione sotto il marchio del mitico Rolando Panerai. Prossemica collaudata, eccezion fatta per quel rigurgito di puritanesimo mosso dal quale Rigoletto getta Gilda a terra al termine del second’atto a causa della di lei irrimediabile perdita del primigenio candore. Ma il vero miracolo è veder aggirarsi in sala come un grillo questo sgarzolino di Campi Bisenzio che va per gli ottantanove anni, baritono prediletto ai tempi della Callas, ancora profondamente innamorato della forma d’arte più complessa come nel giorno del debutto: tutto ciò e molto altro rivelano, infatti, gli occhi vispi, che s’illuminano di gioia al solo sentire pronunciar la parola «opera». Cresce dunque la curiosità di vederlo per l’ennesima volta nei panni di Germont Père il prossimo maggio su questo stesso palcoscenico, sessantotto anni dopo la presa del ruolo (avvenuta, se la matematica non è un’opinione, nel 1945). Gianni Schicchi, altro suo cavallo di battaglia, a tal punto esclamerebbe, con forte cadenza toscana: «Ditemi voi, signori»!
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un opera fatta utilizzando scenografie di altre opere, un bel gioco di luci ed atmosfere, gilda (nino machaidze) meravigliosa e bella ….una perla di rara bellezza ..in un momento cosi’ difficile per l’opera in italia e soprattutto per il carlo felice…..
suppongo che il ‘paciugo’ sia stato fatto per far vedere ai tanti studenti delle scuole presenti come funziona il palco.
il vero pagiugo è stato l’applauso di poco pubblico, ma sufficiente al disturbo, durante uno dei primi assoli di gilda!
giorgia
Molto bella ed emozionante, a parte il “paciugo” con la scenografia durante il primo atto