Opera • Il Festival di Musica Antica tirolese ha presentato l’opera gemella del capolavoro di Peri. Alcuni tra i migliori specialisti italiani del repertorio secentesco hanno dato una lettura di riferimento, in un allestimento scenico di fascino straordinario
di Francesco Lora
Nell’autunno 1600 Enrico IV, re di Francia, sposò Maria de’ Medici, principessa di Toscana. Prima che ella sbarcasse a Marsiglia e incontrasse il marito, un matrimonio per procura era già stato celebrato a Firenze il 5 ottobre, ed era stato festeggiato l’indomani con la rappresentazione dell’Euridice di Jacopo Peri, lavoro nel quale molti riconoscono la prima opera in musica. Ma quel libretto di Ottavio Rinuccini era stato simultaneamente intonato anche da Giulio Caccini, in aperta e non amichevole concorrenza con Peri, al preciso scopo di emulare e superare le musiche del collega: in quel fatidico 6 ottobre e tra un’ingerenza e l’altra, tre brani di Caccini scalzarono anzi quelli corrispettivi di Peri. Quale tra le due Euridice è la migliore? A distanza di quattro secoli dalle schermaglie dottrinali dei monodisti fiorentini, volerlo stabilire farebbe sorridere musicologi e musicofili insieme. Andrà invece notato che L’Euridice di Caccini gode oggi, in teatro e in disco, di minor fortuna e diffusione rispetto a quella di Peri. Il Festival di Musica Antica di Innsbruck ha dunque acquisito un nuovo merito allestendone, il 23 e il 25 agosto nel Landestheater, due recite memorabili e degne di immediata ripresa.
Il lavoro di Horstkotte e Bovey ha infatti ottenuto un’accuratissima resa e collaborazione attoriale, e ha restituito l’azione con una linea narrativa di rara chiarezza
Eccellenti le premesse ed eccellenti gli esiti della parte musicale, con Rinaldo Alessandrini direttore del suo Concerto Italiano. Vi erano tre tiorbe, due arpe, lirone, viola da gamba, due clavicembali, organo e regale per riempire di colori il basso continuo. E soprattutto vi erano un concertatore e strumentisti esperti di monodia rinascimentale, di efficacia teatrale e di misura espressiva, con la naturalezza stilistica che è alla base della lettura di questo repertorio e che rimane una prerogativa degli italiani. In umiltà, il loro primo obiettivo è stato il servizio al canto e alla parola in seno al canto; e i loro sforzi sono stati premiati da una compagnia di voci tutte italiane, capaci di scandagliare la parola nel suo significato letterale, nel suo pregnante sottinteso, nella sua molle o crepitante fonetica, sempre assegnando a essa il giusto velo timbrico, la giusta inflessione, il giusto gesto sonoro che già contiene quello scenico. Tra tutti, la regina è stata la solita Sara Mingardo, interprete delle parti di Dafne e di Proserpina: contralto cui più giovani generazioni hanno già tolto il principato del virtuosismo spericolato e dell’estensione senza limiti, ella rimane tuttavia insuperabile nell’espressione degli affetti al solo aprir bocca, chiaroscurando su quel colore ambrato che sembra anticipare di per sé sillaba e nota, e tanto più scuotendo l’emozione quanto più rimanendo ferma nel pudore, nella fermezza e nell’aristocrazia del porgere.
Un’altra lezione di alta retorica del canto è venuta dall’altrettanto solito Furio Zanasi, per un Orfeo meditativo di carattere e fragrante di fraseggio: chi già conosce la sua interpretazione dello stesso personaggio secondo Monteverdi – e chi non la conosce? – insegua anche questa secondo Caccini, magari in un’auspicata incisione discografica. Intorno alla Mingardo e a Zanasi ruotava una collezione di specialisti: i soprani Monica Piccinini e Anna Simboli, i tenori Gianpaolo Fagotto, Luca Dordolo e Raffaele Giordani, il baritono Marco Scavazza e i bassi Antonio Abete e Matteo Bellotto. Piace citare a parte due tra i più giovani elementi della compagnia: Silvia Frigato, come Euridice, ha esibito timbro luminoso e tecnica solida, unendo nell’espressione la spontanea simpatia e la nobile forbitezza di modi; Mauro Borgioni, come Caronte, si è distinto per il fraseggio così minuzioso e dotto da ubriacare l’ascoltatore di piacere intellettuale.
Nello scorrere la locandina, qualche pregiudizio accompagnava i nomi di Hinrich Horstkotte, regista e costumista, e di Nicolas Bovey, scenografo: la realizzazione scenica di opere rinascimentali e barocche è sempre un terreno assai scabroso per il confronto tra uomini di teatro, uomini di musica e uomini di critica. Già poco dopo il levarsi del sipario, al cospetto di uno spettacolo magnifico, non restava traccia di pregiudizio. Il lavoro di Horstkotte e Bovey ha infatti ottenuto un’accuratissima resa e collaborazione attoriale, e ha restituito l’azione con una linea narrativa di rara chiarezza; in esso non si è optato per una lettura filologica o per una rivisitata, ma si sono accolte entrambe, contaminandole a vicenda con mano leggera e acume teatrale.
Come vuole la miglior lezione odierna, il palcoscenico era spoglio di ogni elemento superfluo, i costumi erano perlopiù parimenti essenziali, il gesto era cinematograficamente naturale e le luci hanno giocato un ruolo psicologico fondamentale; lucidi cenni di lancinante ironia: Euridice è avvicinata e condotta da Plutone mentre gioca a mosca cieca con i compagni di vita pastorale, ed è poi fatta precipitare nella misteriosa porta oscura che si apre sul fondo. Ma come vuole il miglior uso antico, Venere è discesa ex machina dal cielo, e Plutone e Proserpina hanno infuso vero timore, con la loro altezza doppia rispetto a quella dei mortali. Soprattutto, dall’uso antico è derivata la volontà che tutto recasse bellezza all’occhio dello spettatore, e che l’origine celebrativa dell’opera non andasse dispersa: la stanza d’argento entro la quale Abete e la Mingardo, nei sontuosi panni anch’essi argentei di Enrico IV e Maria de’ Medici, siedono in muta maestà l’uno di fronte all’altro, è uno tra i quadri viventi più inebrianti visti in teatro negli ultimi anni. Tale immagine ha peraltro ribaltato la norma: colori e luci, forme e prospettive, posa e gesto facevano sì che gli elementi scenici e i corpi stessi degli attori risultassero idealizzati e per così dire disegnati. Il bozzetto preludeva all’azione, ma l’azione sembrava un bozzetto.
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