Tra Milano e Torino è in corso la nuova edizione del festival che raccoglie e sviluppa la storica eredità di Settembre Musica. Apertura con Daniel Reuss alla guida dell’Akademie für Alte Musik Berlin e la Cappella Amsterdam
di Attilio Piovano
Significativa inaugurazione per l’edizione numero sette del Festival MiTo, sul versante torinese, ieri sera, giovedì 5 settembre, al Teatro Regio: e Torino – si sa – è la città che diede i natali al Festival stesso nel lontano 1978, col nome di Settembre Musica; festival poi evolutosi moltissimo nel corso dei decenni, ma pur rimasto sostanzialmente fedele a una indovinata formula – una ricca kermesse musicale che abbraccia vari generi, dal barocco al contemporaneo, dall’avanguardia alla canzone d’autore, alla danza e altro ancora, con una succulenta offerta culturale distribuita in vari luoghi della città (molti i concerti gratuiti pomeridiani) – formula felicemente esportata e sfociata nel raddoppio-gemellaggio con la città della madonnina, da ormai sette edizioni. E non a caso, secondo un consolidato copione, l’inaugurazione (e così pure la chiusura) avvengono ad anni alterni, ora nell’una, ora nell’altra città. Quest’anno toccava a Milano aprire, e infatti già la sera del 4 settembre, alla Scala, il pubblico ha potuto applaudire l’Akademie für Alte Musik Berlin e la Cappella Amsterdam: i medesimi complessi approdati ieri sera a Torino, per la direzione dell’esperto e valido Daniel Reuss.
Bene l’orchestra, in bilico tra la monocromia esangue di certi complessi filologici oggi ahinoi tanto in voga e gli eccessi di altri che finiscono invece per arruolare il settecentesco Mozart entro temperie di gran lunga posteriori, con anacronismo fastidioso e fuori stile
Coraggioso, per certi versi inconsueto il programma, quanto meno per un’apertura di Festival (laddove di solito si punta pigramente e supinamente su qualcosa di assai spettacolare, insomma su qualcosa di forte impatto popolare). Sicché fa davvero piacere registrare i folti e convinti applausi del pubblico che gremiva il Regio ieri sera (numerosi i vip e le rappresentanze del mondo della cultura, delle istituzioni, ma soprattutto un pubblico di veri appassionati e cultori di classica) al termine di un capolavoro eccelso e intimista come il brahmsiano Mottetto op. 74 n° 1 («Warum ist das Licht gegeben dem Mühseligen?»). Applausi che fanno onore innanzitutto all’intelligenza del pubblico stesso, perfettamente in grado di cogliere la profondità del messaggio spirituale di tale pagina sublime contesta su citazioni da Giobbe, dalle Lamentazioni, da Giacomo e Lutero. In apertura, stante il contenuto sacro della serata, è stato lanciato un appello alla pace, in questa turbolenta e delicata situazione internazionale, in sintonia con le accorate e ferme esortazioni di Papa Francesco, appello vistosamente condiviso dall’intero pubblico. Un capolavoro assoluto, il lavoro corale di Brahms, non certo inferiore – fatte salve le ovvie differenze di contenuto – alla profondità del Deutsches Requiem. Una pagina che, strutturata secondo un vero e proprio climax emotivo, dopo l’austerità severa e arcaicizzante della prima sezione di enorme efficacia emotiva, si scioglie in un passo dall’andamento più sciolto («Lasset uns unser Herz») avviato dalle voci di registro acuto, poi il remake di un corale («Siehe, wir preisen») e quel mix di umanissima tenerezza e sobrio riserbo nordico che di Brahms sono la firma. Infine la leggiadria e la rasserenante pacificazione dell’ultima parte («Mit Fried’ und Freud’ ich fahr’ dahin»), riverbero nella fiducia divina, dopo i dubbi espressi in apertura. A dir poco stupenda la resa da parte della Cappella Amsterdam, compagine di singolare fusione e amalgama, dalle elegantissime emissioni, in grado di ottenere incredibili più che pianissimi, docile alla direzione espressiva di Daniel Reuss, direttore cordiale e colto dal bel gesto, capace di imprimere i giusti fraseggi e lasciar respirare le voci. Una bella vetrina per la compagine, il Mottetto brahmsiano prescelto, che allinea tratti omofonici e passi imitati, contrappunto ed elaborazioni di cantus firmus, e, sul piano armonico, passi cromatici e arcaiche reminiscenze. Il tutto reso al meglio e con una intensità davvero ammirevole.
Piatto forte della serata la vasta e celeberrima Messa mozartiana in do minore KV 427 alla quale hanno fornito valido apporto le voci soliste del soprano Elisabeth Watts dai bei suoni filati e del mezzosoprano di origine greco-tedesca Stella Doufexis (ammiratissima nell’Incarnatus), mentre – sul fronte maschile – erano presenti il tenore Lothar Odinius (indimenticabile Evangelista nella Passione Secondo Matteo per la direzione di Rilling) ed il basso Andreas Wolf, voci ammirevoli per equilibrio ed omogeneità, lievemente meno equilibrate le due femminili, delle quali la Doufexis è parsa superiore. Notissime (e nel contempo non prive di misteri) le circostanze esterne che indussero Mozart a scrivere questo toccante capolavoro per la guarigione dell’adorata Costanza Weber, futura consorte, da una non meglio precisata malattia. Pagina dalle grandiose proporzioni, dalla fascinosa eterogeneità linguistica (un limite secondo alcuni, in realtà uno dei punti di forza) pagina dunque dall’ambizioso range stilistico che lasciò tutti stupefatti, fin dalla prima esecuzione il 26 ottobre 1783 presso la salisburghese Abbazia di San Pietro. E non a caso tuttora il capolavoro sacro seduce e tocca profondamente il cuore. Brividi fin dalle prime note, nell’esecuzione dell’Akademie Berlin con quegli apici di cupa desolazione che allignano nel Kyrie e quel cromatismo cinereo – e pare la “prova generale” del futuro Requiem – frammisto a una inattesa dolcezza melodica. Poi le sfolgoranti fanfare del Gloria memore di echi haendeliani (e già in apertura Mozart inserisce una riconoscibile pseudo-citazione dal Messiah). E ancora: la tempestosa gragnola di insistenti figurazioni in Gratias agimus punteggiato di cromatismi e gluckiane emersioni dei tromboni, e quel movimento discendente di ciaccona in Qui tollis. Ma anche accenti galanti e rococò nel Quoniam seguito dalla solennità di Jesu Christe. E la sontuosa ammirevole Fuga del Cum Sancto Spiritu, e poi il Credo, luminoso e assertivo, dalla singolare scioltezza, giù giù sino al trepidante Incarnatus, seguito dal poderoso Sanctus e dal finale, polifonico Hosanna, dove ancora una volta – come già nei passi in regime di doppio coro – la compagine corale ha avuto modo di imporsi all’attenzione.
Bene l’orchestra, in bilico tra la monocromia esangue di certi complessi filologici oggi ahinoi tanto in voga e gli eccessi di altri che finiscono invece per arruolare il settecentesco Mozart entro temperie di gran lunga posteriori, con anacronismo fastidioso e fuori stile. In apertura s’era ascoltata di Haydn la Sinfonia n° 80, dall’esordio accigliato, quasi pre Sturm und Drang, dove invero non tutto è oro colato e parecchie lungaggini distendono la loro ombra qua e là, per la serie quandoque Homerus dormitat. In verità – occorre riconoscerlo – Reuss ha fatto del suo meglio per evitare l’effetto ipnosi, puntando sui tratti garbatamente leziosi di cui la pagina è ricca fin dal curioso primo tempo che delinea un vero e proprio inatteso ribaltone stilistico, adottando fraseggi sciolti e restituendo alla partitura la sua nitida trasparenza, ma nel contempo lavorando di bulino dove occorre l’arte del tratteggio e dove è d’uopo giocare di chiaroscuro. Di fatto la non memorabile Sinfonia si riscatta nel brillantissimo Finale (dove Reuss ha spinto alquanto sull’acceleratore, sapendo di poter contare su un complesso di buon livello) sorta di perpetuum mobile vero e proprio tour de force dalle vivaci sorprese e dalle argute sincopi.
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