In scena al Teatro Massimo l’opera di Verdi con la regìa di Henning Brockhaus
di Monika Prusak
CIPRO SEMBRA ECHEGGIARE IL CARNEVALE VENEZIANO, quando Otello ritorna vincitore dalla battaglia, ma non c’è allegria in questo luogo reso indefinito e buio dal regista Henning Brockhaus insieme allo scenografo Nicola Rubertelli. Così l’Otello “palermitano” si tinge di atmosfere lugubri sin dalle prime scene, rendendo impossibile ogni tentativo di tenerezza sentimentale tra Otello e Desdemona. Le luci (Alessandro Carletti) riescono a far risplendere le tinte spente dei costumi di Patricia Toffolutti, indossate dagli attori mascherati sempre in movimento, la cui presenza – che ricorda il Feuersnot di Richard Strauss da poco rappresentato – risulta spesso eccessiva. La tempesta shakespeariana viene percepita più come un evento interiore che atmosferico: senza l’effetto visivo della realizzazione scenica, la musica di Verdi esplode con doppia forza, mostrando lo stato d’animo e il temperamento del protagonista. Il mondo interiore di Otello scorre nelle pagine musicali di Verdi e la direzione di Renato Palumbo riesce a comunicarlo in maniera chiara e convincente: l’animo turbato si placherà solo dopo le drammatiche esplosioni di ira e quindi dopo la morte.
Questa edizione di Otello gode di un cast interessante per quanto riguarda la vocalità e la recitazione, entrambe qualità essenziali per una buona riuscita della complessa partitura in cui grandi melodie lasciano il posto a una sorta di «prosa musicale». La voce, soprattutto quella del protagonista, è spesso chiamata a “declamare” ed è uno dei pregi di Gustavo Porta, un Otello vincitore, perso di fronte a un problema di natura sentimentale. I numerosi portamenti rendono il canto poco puntuale, mentre la presenza scenica e l’uso estremo della voce disegnano un capo spietato e possente, ma anche inquieto e destinato a una fine tragica. Nonostante la negazione della purezza di Desdemona da parte di Brockhaus, sin dall’inizio sembra evidente il legame della protagonista con la Madonna. Già nelle prime scene la donna appare vestita di bianco come parte vivente di un quadro sacro e viene simbolicamente spogliata della veste “pura” da Jago. Sarà Jago a rompere una statua della Madonna all’inizio del secondo atto, a conferma del piano diabolico volto a distruggere sia la protagonista che il Moro, suo odiato capo.
La creazione di Julianna Di Giacomo in Desdemona è commovente e vera. La cantante affronta il ruolo con voce equilibrata e calda, che anche nei momenti di maggiore impegno riesce a coinvolgere per consistenza e pacatezza. Il terzo protagonista, Jago, è quello più elegante e apprezzabile dal punto di vista vocale: Giovanni Meoni non ha paura di usare differenti livelli dinamici, con un piano eccellente, che rende la sua interpretazione intrigante nei momenti di maggiore tensione. Risultano ben costruite le scene tra Jago e Otello, che da un lato sottolineano la genialità drammaturgica del duo Verdi-Boito, dall’altro provano l’affiatamento tra gli artisti e il direttore. Tra i personaggi secondari non passano inosservati Montano di Maurizio Lo Piccolo ed Emilia di Anna Malavasi. È buona la resa generale del Coro, anche se non è sempre comprensibile; applausi vanno all’Orchestra del Massimo, che non perde la giusta tensione fra la quiete e la tempesta, esaltando la dolcezza di Desdemona in netto contrasto con il resto dei personaggi.
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