Prima ripresa moderna per l’inaugurazione della stagione del Teatro Bellini, nel bicentenario della morte del compositore. La delicata regìa è stata affidata ad Andrea Cigni
di Santi Calabrò
L‘INTERESSE PER LA COERENZA DRAMMATURGICA dell’insieme è l’ultima preoccupazione per la gran parte degli autori di opere del Settecento, e l’ottimo Giovanni Paisiello non fa eccezione: all’inizio della sua Fedra su libretto dell’abate Luigi Salvioni – erede, con l’interposizione di un’opera di Traetta su testo di Frugoni, dell’Hippolyte et Aricie di Rameau –, Fedra vuole sbarazzarsi di Aricia subito, “a prescindere”, pur non sapendo ancora che il figliastro di cui è invaghita, Ippolito, a sua volta ama proprio Aricia! La ragazza si offrirebbe di morire all’istante, con lodevole disponibilità, ma interviene prontamente Diana, facendo un primo allenamento in vista del suo ruolo finale di Deus ex machina, per preservare l’incolumità della sua pupilla.
[restrict paid=true]
Il resto dell’opera va da sé, e spesso va un po’ meglio. Se le situazioni servono solo ad accendere le arie, a volte esse sono non solo ben congegnate ma persino “dinamiche”: soprattutto nel secondo atto, quando Fedra ricatta Aricia – o abbandoni Ippolito o lo faccio uccidere! – e le offre un’appassionante scena di dissidio interiore con tutto l’armamentario dello stile sentimentale di solida scuola napoletana; o quando l’eterno congegno dell’amore contrastato e poi trionfante dà anche a Ippolito il modo di attingere a quel medesimo armamentario. Gli amanti “legittimi” che alla fine coronano il loro sogno, proiettati verso le nozze e la regalità, sono i veri protagonisti: alla povera Fedra non ne va bene una. E non solo perché è qui l’unica con un destino tragico, finendo suicida davanti a Teseo, ma perché di fatto durante l’opera si degrada da personaggio a funzione delle peripezie della coppia realmente protagonista. La forma musicale non mente: in Paisiello-Salvioni, come in Traetta-Frugoni, per il suicidio di Fedra c’è solo la miseria di un recitativo secco; la sua dipartita, in vista del lieto fine, scivola quasi inosservata.
Con la meritoria prima ripresa moderna del lavoro di Paisiello – di cui quest’anno ricorre il bicentenario della morte –, il Teatro di Catania ha aperto la sua stagione 2016, affidando il nodo più delicato, quello della regìa, alle cure di Andrea Cigni. Nel complesso il regista fa un buon lavoro: sulla scena gradevole e funzionale di Lorenzo Cutùli – dominata da due pedane circolari intrecciate – i movimenti scenici seguono l’andamento delle situazioni senza strafare, Cigni arricchisce la visione di effetti speciali suggestivi (su tutti, le belle proiezioni di onde marine) e gli immancabili mimi, incongrui come spesso accade, di fatto esagerano solo nella scena di Teseo agli inferi (resta misterioso cosa ci facciano diavoletti e dannati ignudi in un Ade classico). Jérôme Correas dirige correttamente senza riuscire in verità molto incisivo, ma accompagna bene i cantanti; da Caterina Poggini (Ippolito) e Anna Maria Dell’Oste (Aricia) arrivano vocalmente le cose migliori, e tutto il cast si disimpegna abbastanza bene. Alla fine è chiarissimo il trionfo dell’amore, ma il regista ritiene di sottolinearlo con un Cupido nudo che circola fra protagonisti e Coro. Al pubblico, tra divertito e allibito, resta il dubbio se il figurante si presenterà in quello stato adamitico anche per inchinarsi al proscenio, ma i provvidenziali slip magicamente al loro posto alla riapertura del sipario tranquillizzano i benpensanti, e ciò basta per accendere applausi più energici del consueto, compassato, battimani che si riserva di solito al melodramma del Settecento.
[/restrict]