di Ilaria Badino foto © Weber
L’ultimo concerto che Cecilia Bartoli ha portato sulle assi dell’a lei caro Théâtre des Champs-Élysées non s’è certo profilato nelle forme e nei modi consueti che questo termine in genere designa nel mondo della musica classica. Vedremo poco a poco perché. La prima cosa che fa piacere notare è come la compagine che l’ha accompagnata, quella dei Musiciens du Prince-Monaco, annoveri un elevato numero di strumentiste donne anche non più di verdissima età. Il brano orchestrale introduttivo allo spettacolo – perché di un vero e proprio one-woman-show più che di un semplice concerto s’è trattato –, l’«Arrivo della regina di Saba» dall’oratorio Solomon, è già in parte esemplificativo dei pregi e dei difetti di questo ensemble autodiretto.
Le sonorità fluiscono morbide, senza gli strappi a volte troppo aggressivi e clangorosi di molte orchestre barocche nello sforzo di evidenziare la contrapposizione tra blocchi in piano ed in forte; scopriremo poi, con l’avanzare del programma, l’eccellenza assoluta di svariati solisti (l’oboista Pier Luigi Fabretti, il flautista Jean-Marc Goujon ed il trombettista di cui purtroppo non viene fornito il nome in brochure). Un approccio così pacato sembra però in questo caso anche indice di un’identità musicale non del tutto definita, di una levigatezza che diventa talvolta fin troppo cedevole ed anonima. Vedremo quali frutti saprà maturare questa squadra di recentissima formazione in seguito alle prossime, numerose, occasioni di esibirsi sotto la sapiente guida di bacchette esperte.
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La Ceciliona nazionale fa la sua regale apparizione preannunciata da un occhio di bue pronto ad illuminarla d’immenso sulla sinistra del palco nel suo abito di tulle blu elettrico. Sappiamo che la Bartoli, per sua stessa ammissione, s’identifica a tal punto in ciò che interpreta da raggiungere uno stato di trance: ai suoi fedeli conoscitori non dovrà dunque apparire strano che, in una delle riprese di «Chiudi, chiudi i vaghi rai» dal Trionfo del tempo e del disinganno, serri veramente le palpebre e, come in sogno, muova le dita in aria accarezzandola, quasi stesse suonando una lira immaginaria. Una poltrona collocata nello stesso punto della scena che aveva segnato il suo ingresso è pronta ad accoglierla durante i pezzi meramente strumentali. Che, ad onor del vero, sono tanti e si profilano, insieme ad altre spie d’allarme, come un chiaro segnale: perfino sull’inossidabile Santa Cecilia cominciano a gravare i più di trent’anni di carriera infaticabilmente trascorsi tra sale di concerto e (sempre meno) teatri d’opera. Ed è così che la scelta dei brani ricade soprattutto su andanti e lamenti più che su arie di furore; laddove si vuole ancora mettere in evidenza l’espressività della coloratura, si predilige il ricamo sensuale alla tempesta, uno dei tòpoi barocchi da sempre prediletti dal mezzosoprano romano e da lei dispensati a piene mani fino ad alcuni anni fa. Nonostante l’innegabile riduzione della proiezione di un volume già piuttosto esiguo in partenza, la Bartoli riesce ancora a giocare su di un’ampia paletta dinamica che giunge addirittura al sussurro (non a caso, una raccolta discografica edita da Decca alcuni anni fa si chiamava “Sospiri”). Emblematico in questo senso è come in «Verso già l’alma col sangue» da Aci, Galatea e Polifemo la voce le si vada spegnendo in gola come se davvero Aci stesse esalando l’ultimo respiro.
Lo spettacolo extravocale raggiunge uno dei suoi apici quando le luci sul palco s’attenuano a ricreare un’atmosfera notturna per meglio rendere «O sleep, why dost thou leave me» dalla Semele e si fa forse un po’ troppo artefatto con le trovate dello specchio ed infine dello smartphone nella pur sempre spettacolare «Myself I shall adore» durante la quale, tra una coloratura e l’altra, la Nostra viene colta dalla smania di rimirarsi ogni parte del proprio giunonico corpo fino a scattarsi selfie dapprima da sola, poi con i membri dell’orchestra ed infine con il pubblico (una metateatralità di cui chi scrive non sentiva il bisogno). La prima parte del programma termina con l’impetuosa «Desterò dall’empia Dite» dall’Amadigi, in cui palese è il divertimento dell’artista a nel rispondere a mo’ di eco dispettosa alla tromba ed all’oboe. Le agilità, tante e fitte, sono risolte con fluidità e morbidezza, ma non poco penalizzate dall’assenza di un volume più penetrante che renda in toto lo spirito pugnace del brano.
Nella seconda parte del concerto, la diva romana si presenta con l’ormai celebre mise firmata dallo stilista Agostino Cavalca che l’aveva accompagnata per tutto il tour seguito all’uscita del controverso album “Sacrificium”, tutto giocato sull’ambiguità della figura dei castrati nel panorama musicale settecentesco. Pertanto ce la troviamo davanti in candida camicia adornata da ricchi jabot, giacca sciancrata di velluto nero al ginocchio, pantaloni di raso e scarpe alla garçon. Uno dei vertici emotivi della serata è senz’altro rappresentato dall’amara «Scherza infida» dall’Ariodante, caleidoscopio di mestizia e di prostrazione: la Bartoli, con espressione sinceramente afflitta e gestualità quasi mutilata dall’abbattimento fisico che la frustrazione amorosa porta con sé, dà vita ad un lamento che non potrebbe essere più reale e toccante. Il programma ufficiale si conclude con i fuochi d’artificio di «M’adora l’idol mio» dal Teseo dei quali, a dirla tutta, avevamo sentito la mancanza, poiché è innegabile che il binomio Cecilia Bartoli – canto barocco di coloratura sia troppo paradigmatico per essere relegato in un angolino, sebbene i mezzi non siano più quelli di una volta. Ma la generosità rimane quella di sempre ed assume la forma di tre gustosissimi bis: «Sventurata navicella» di Vivaldi, in cui lei stessa si cimenta al tamburello; «Sol da te mio dolce amore», ancora del Prete Rosso, la cui tessitura più grave richiesta rispetto agli altri brani proposti sembra rendere più densa e voluminosa la voce che vi si cimenta ed nel quale il languido commento del flauto fa emergere una nostalgia malinconica tutta lagunare; infine, «A facile vittoria» di Steffani. Un’aria di bravura, quest’ultima, che si configura nell’esilarante parossismo di una sfida di fiato tra la cantante e la tromba solista, gara che porta la Bartoli ad eseguire l’ormai mitica quintupla (in questo caso forse addirittura sestupla?) messa di voce da lei stessa inserita all’inizio di «Son qual nave» di Riccardo Broschi e addirittura, sospinta da uno strumentismo jazz, ad accennare «Summertime». L’affezionato pubblico degli Champs-Élysées apprezza fino al delirio e, devotamente, tributa un’ovazione.
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