di Cesare Galla foto © Michele Crosera
All’inizio degli anni Duemila, l’Opera delle Fiandre chiese a Giorgio Battistelli un’opera su Rudolf Nureyev. Il compositore laziale – lo ha raccontato egli stesso – ci si mise d’impegno, ma nel giro di qualche mese capì di non riuscire a trovare il giusto approccio per narrare attraverso il teatro musicale la vita del grande coreografo e danzatore russo scomparso nel 1993. E a quel punto rilanciò, proponendo invece di mettere in musica il Riccardo III di Shakespeare: soggetto storico e politico complesso e affascinante, legato a una delle tragedie più note e sconvolgenti del Grande Bardo, il cui protagonista ha la grandiosità terrificante (perché spaventosamente senza tempo, oltre la sua collocazione storica) dei personaggi che si impongono come l’incarnazione del Male assoluto. E sul piano melodrammatico, soggetto collegato alla grande tradizione verdiana, sia per quanto riguarda il rapporto con Shakespeare sia sul piano di una drammaturgia chiamata a confrontarsi con gli abissi dell’anima umana.
Un secolo e mezzo circa dopo l’esordio shakesperiano del compositore di Busseto (la prima versione del Macbeth è del 1847, la definitiva del 1865), Battistelli accettava il confronto e la sfida di un teatro musicale dedicato a esprimere l’abominio del potere e del sangue che interamente lo intride e lo motiva. Confronto impensabile solo qualche decennio prima – a considerare le cronache del teatro musicale negli anni dell’avanguardia più radicale – eppure finalmente divenuto possibile in un panorama che si stava liberando dagli astratti furori della Nuova Musica, grazie anche al forte impegno e alla vocazione teatrale dello stesso Battistelli.
La versione librettistica della vastissima tragedia fu affidata a Ian Burton, autore di una riduzione di miracolosa efficacia, capace di conservare gli snodi narrativi della rappresentazione pur dovendo sfoltire personaggi e situazioni, senza tralasciare nulla della poesia che ancora oggi ci affascina, dall’iniziale monologo “Ora è l’Inverno del nostro scontento” al conclusivo “Il mio regno per un cavallo” durante la battaglia fatale, conservando anche umori e colori dell’originale, visto che il testo è in inglese. Lo spettacolo venne realizzato da Robert Carsen, fra i registi di punta nel panorama internazionale uno di quelli che più volentieri e più proficuamente dialoga con la musica contemporanea. E infatti ancora oggi egli ricorda il fervore creativo di un lavoro nel quale le idee per la messa in scena potevano essere confrontate “in diretta” con l’ideazione musicale e quella librettistica, secondo una collaborazione dal sapore antico.
All’Opera di Anversa, il 30 gennaio 2005, il dramma per musica in due atti Richard III fu salutato da un vivo successo, che si ripetè negli anni seguenti in vari sedi europee di prestigio, ma finora non era ancora mai approdato sulla scena italiana. L’imbarazzante lacuna (imbarazzante per l’evidenza delle colpevoli amnesie della vita culturale italiana) è stata colmata solo 13 anni dopo la prima assoluta, grazie alla Fenice, dove Richard III è andato in scena per sei repliche fra giugno e luglio, sempre a teatro pressoché esaurito, sempre con i segni di un’emozionato coinvolgimento del pubblico.
In effetti, quest’opera è uno dei caposaldi della drammaturgia musicale nel XXI secolo: un capolavoro nel quale Battistelli mette a fuoco un linguaggio drammatico di immediatezza fremente e appassionante. Nelle vaste pagine sinfoniche – dalla visionaria forza espressiva – che inquadrano l’azione; nei monologhi e nei dialoghi che la costellano con una vocalità multiforme e duttile, spesso aspra eppure capace anche di desolato lirismo; nelle pagine corali che la commentano quasi come in una tragedia greca e fuori scena costruiscono una sorta di “continuum” di dolente partecipazione, questa partitura si dimostra in grado di rendere viva e sconvolgente la drammaturgia insita nella narrazione shakespeariana ma anche di esaltarne la portata filosofica universale, grazie a una scrittura perfettamente coerente con il meccanismo di percezione e di comprensione che sradica nello spettatore ogni contesto temporale e rende assoluti – nel senso etimologico – i personaggi e la loro tragedia. Una musica libera da vincoli tonali ma non arbitrariamente astrusa, che spazia nell’armonia con duttilità ed estroversa forza teatrale. Che si fa capire e regala emozioni.
Su una linea straordinariamente coerente con quella disegnata dalla musica si muove del resto anche il magnifico spettacolo di Carsen, uno dei più affascinanti a cui ci sia capitato di assistere da molti anni a questa parte. E questo esalta l’eccezionalità della proposta nel suo insieme. Il regista canadese cala la vicenda (con la fondamentale collaborazione dello scenografo Radu Boruzescu) all’interno di una struttura desolata e in abbandono – quasi scenario di un futuro distopico – che ricorda le strutture del teatro elisebettiano non meno di quelle classiche del teatro greco e romano. La sghemba gradinata metallica (sghemba come la schiena deforme di Riccardo III) incombe su un’arena cosparsa di sabbia che ha il colore rosso del sangue. Ed è questa sabbia che i numerosi figuranti muniti di pale come becchini (sicari, cortigiani pronti al tradimento, soldati) sollevano e spostano creando un effetto speciale straniante e affascinante: in scena il sangue sembra zampillare, scorrere, frangersi a ondate successive nella terrificante mattanza ordita dal protagonista. Abbigliati (costumi di Miruna Boruzescu) senza alcuno sfarzo regale – e del resto nulla di monumentale o sfarzoso mostra questo spettacolo – i personaggi si aggirano in questa mortale arena manovrati dal deus ex machina che ordisce vendette, cospirazioni, usurpazioni e stragi. Nel suo gesto, nelle sua espressioni da efferato clown senza pietà, nel suo “recitare” il male e la violenza tanto quanto la deformità che li motiva, in precisa corrispondenza con l’invenzione musicale-vocale di Battistelli, batte il cuore di questo spettacolo magistrale che aderisce integralmente alla magistrale partitura.
È chiaro che per rendere al meglio questa materia incandescente serviva un interprete di assoluto livello. Alla Fenice, il baritono Gidon Saks lo è stato sia musicalmente che scenicamente: un mattatore per la presenza e l’efficacia teatrale e per la pienezza dei mezzi vocali, fino al raggelante acuto che segna la sua morte in battaglia. Nel folto cast, da segnalare il Buckingham autorevole e sornione di Urban Malmberg, (cadrà per ultimo sotto la violenza del suo re) e l’Hastings senza illusioni di Simon Schnorr. Edoardo IV è stato un desolato Philip Sheffield, mentre Clarence ha avuto gli accenti rassegnati e amari di Christopher Lemmings. Fra le donne, in primo piano Sara Fulgoni, Lady York, la madre di Riccardo III: quando in sottofinale maledice il figlio, si è espressa con l’altera disperazione di certe eroine melodrammatiche ottocentesche. Annalena Persson è stata una Lady Anne di tagliente caratterizzazione scenica ma di vocalità un po’ forzata, specie nella zona acuta. Da citare ancora Christina Daletska, dolente Lady Elisabeth. Impeccabile il coro istruito da Claudio Marino Moretti. Il direttore Tito Ceccherini ha dipanato la complessa materia sonora di Battistelli con efficaci accensioni dinamiche, dettagli ben distinti nello strumentale (in cui grande evidenza hanno le percussioni), ottenendo dall’orchestra della Fenice una risposta di convincente efficacia.