di Monika Prusak foto © Rosellina Garbo
Come spesso accade nel caso di una fiaba, la storia della crudele principessa Turandot apre le porte a una infinità di possibilità interpretative. Una di queste è la nuova produzione del Teatro Massimo di Palermo, allestita in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna e il Badisches Staatstheater di Karlsruhe, in partnership con il Lakhta Center di San Pietroburgo. L’opera pucciniana, a quasi un secolo dalla sua prima rappresentazione, è vista in chiave futurista grazie alle videoproiezioni di AES+F, collettivo di quattro artisti russi apprezzatissimo al livello internazionale. Formato negli anni ’80, il gruppo si occupava inizialmente di performance, installazioni, pittura e illustrazioni. Seguendo le nuove tecnologie, i quattro hanno cominciato a prediligere la fotografia, i video e le tecnologie digitali, senza rompere, tuttavia, con i media tradizionali. La nuova Turandot è frutto di una visione collettiva che integra il lavoro degli AES+F con quello del regista Fabio Cherstich, ben supportati dal videomaker Georgy Arzamasov, dal coach dei movimenti Alessio Maria Romano, e da Marco Giusti alle luci.
Quello che vediamo sul palcoscenico è un continuo susseguirsi di scene, immagini e movimenti, sia di quelli dei personaggi dell’opera, sia di quelli sugli schermi, che si moltiplicano e si sovrappongono tra di loro. Per la maggior parte della performance il castello di Turandot si trova al centro dell’azione, accompagnato da immagini che ne danno una interpretazione metaforica: al posto delle stanze viene proposto il ventre di un gigantesco drago rosso pieno di sangue che scorre. I possibili candidati a sposare la principessa e risolvere i suoi indovinelli, vengono avvolti dai carezzevoli tentacoli di una piovra, dopodiché decapitati e sistemati su un nastro che li mostra da tutte le angolazioni possibili. Li rivedremo in alto su nuvole di fiori, seminudi, quasi fossero dei modelli di Dolce&Gabbana, come se niente fosse successo. Solo dopo la morte i corpi si liberano, mostrandosi in coppie di tutti i generi e etnie possibili. La peculiarità dello scorrere delle immagini ricorda il minimalismo: i movimenti rallentano o accelerano, ma le immagini sono sempre le stesse subendo cambiamenti appena percettibili nel continuo looping. In sottofondo vediamo una metropoli, una Pechino del futuro, sorvegliata da un drago rosso, che amplifica, insieme alle scenografie e ai costumi, il legame con l’aspetto totalitario del potere. In questa chiave appare anche il coro, immobile, in costumi coloratissimi anni Cinquanta, per la verità non del tutto coerenti con il resto dello spettacolo. Il coro è inteso come un riflesso del popolo oppresso, “bloccato” su delle tribune rosso sangue, che da un lato accentuano il carattere sanguigno della principessa, dall’altro, invece, fanno pensare alla Cina o forse ancor di più alla Russia del regime. All’arrivo dell’Imperatore, padre di Turandot, il coro sventola le bandierine, temendo entrambi i tiranni, padre e figlia. L’atmosfera di paura investe anche i tre segretari di Turandot, Ping, Pang e Pong, che in un delizioso terzetto mandano gli aspiranti alla morte. Sugli schermi infiniti nastri da fabbrica portano i candidati decapitati, ma con espressioni di felicità dipinte sui visi. I tre “ministri di sangue” vestiti di rosso, sono dotati di poteri eccezionali come Lord Fener in Guerre stellari. Di Guerre stellari abbiamo anche le spade laser, e i costumi dei guardiani della principessa. Non a caso Liù si trafiggerà con una di queste armi, togliendo veridicità e peso al suo personaggio. L’amore di Calaf per Turandot è strano e inspiegabile, tra un supereroe (in questo caso ispirato a Rambo) e una donna fredda e crudele, a metà strada fra una principessa delle fiabe russe e la Regina della neve di Hans Christian Andersen. Liù e Timur appaiono nella vicenda quasi di contorno. Un ufficiale e una infermiera, insieme a Rambo costituiscono un ricordo del mondo reale, un qualcosa di inarrivabile, come i ricordi di Ping Pang e Pong, storditi dalle sostanze stupefacenti. Tutti gli aspetti fiabeschi vengono proposti con grande rispetto del testo del libretto per cui la vicenda scorre fluentemente, incorniciata da colori e immagini che ne risaltano l’incisività.
La regìa di Cherstich si avvale di un cast all’altezza, con Tatiana Melnychenko nel ruolo di Turandot, che perde la sua fredda indifferenza solo nelle ultime scene con Calaf. Calaf, recitato da Brian Jagde, convince per la resa scenica, ma non rende nel famoso «Nessun dorma» per il tempo affrettato e il fraseggio troppo accelerato, che non permettono al cantante di mostrare appieno la sua voce. Ben assortiti risultano Timur di Simon Orfila, Altoum di Antonello Ceron e Liù di Valeria Sepe, che incanta nell’ultima aria «Tu che di gel sei cinta», nonostante la percepibile stanchezza della voce. I protagonisti della scena sia dal punto di vista vocale sia da quello dei movimenti scenici, sono Ping, Pang e Pong rispettivamente di Vincenzo Taormina, Francesco Marsiglia e Manuel Pierratelli. L’orchestra, il coro e il coro di voci bianche sono guidati dalla bacchetta esperta di Gabriele Ferro, che conduce l’opera con singolare trasporto, curandone i minimi dettagli sonori ed espressivi. Qualche voce di dissenso dal pubblico per la resa troppo moderna del genio pucciniano viene smentita dalla compattezza della rappresentazione. Anche se possiamo non essere d’accordo con la chiave di lettura di Cherstich e degli AES+F, è apprezzabile il fatto che si faccia uno sforzo per ringiovanire la rappresentazione scenica delle opere classiche contro i più conservativi gusti dello spettatore medio dei teatri italiani. Solo in questo modo, anche se a volte imperfetto, si può riaffermare l’universalità e l’immortalità dei temi contenuti in un’opera.