di Gianluigi Mattietti
Che le opere di Francesco Cavalli stiano vivendo una stagione felice in molti teatri europei, è cosa nota. Ma è un vero evento che La Calisto, l’opera più rappresentata tra le quaranta composte da Cavalli, approdi alla Scala, ottenendo tra l’altro un enorme successo: che sia l’inizio di una nuova era?
Dove il repertorio operistico possa liberamente spaziare verso il XVII secolo, ma anche verso il XXI? Eh sì, perché questo spettacolo, prodotto di un Seicento immaginifico, sensuale, surreale, ha dimostrato come un’opera, la sua musica, il suo testo, la sua drammaturgia, possano essere “altro” rispetto alle nostre abitudini d’ascolto, aprendo nuove prospettive alla fruizione del teatro musicale. La Calisto, come molte altre opere di Cavalli, appare moderna anche nel contenuto, con il mix di erotismo e leggerezza, di comicità e pathos, con i suoi personaggi strambi e vulnerabili, con le sue situazioni equivoche e le ambiguità di sesso che sembrano anticipare di secoli le questioni di identità di genere. Il libretto di Faustini, tratto da Ovidio, racconta infatti la storia della ninfa Calisto, bellissima e votata alla castità, che, credendo di concedersi a Diana, si concede invece a Giove (mentre la vera Diana amoreggia di nascosto con il pastore Endimione), ed viene per questo mutata in orsa dalla gelosa Giunone, e poi in una costellazione dallo stesso Giove, che potrà così goderne i favori in eterno.
Dell’eccellente produzione scaligera, il merito andava innanzitutto a Christophe Rousset, che ha ricostruito la partitura ampliando la texture strumentale (ha raddoppiato i violini, aggiunto alcuni strumenti a fiato, arricchito il continuo), moltiplicando alcuni ritornelli, innestando, alla fine del secondo atto, l’ouverture dell’opera L’Orione al posto del balletto mancante. Con i suoi Talents Lyriques, insieme a un nucleo dell’orchestra scaligera, ha diretto l’opera con finezza musicale e senso dell’insieme, cercando sonorità asciutte, sottolineando la varietà drammatica dei recitativi, espressivi, incalzanti, ricchi di vocalizzi, echeggiati da ritornelli orchestrali, che tratteggiavano con sottigliezza gli umori mutevoli dei vari personaggi. Perfetto il cast, dominato dalla Calisto del soprano israeliano Chen Reiss, dal timbro luminoso, sensibile e commovente nell’esprimere i turbamenti amorosi, la sofferenza, il disinganno, il beato abbandono nel duetto finale con Giove. Superlativa anche la prova del controtenore Christophe Dumaux, nei panni di Endimione, pastorello-astronomo innamorato di Diana-Luna, dotato di una voce insieme duttile e corposa, di grande forza espressiva, soprattutto nei lamenti e nei momenti più languidi, culminanti nel duetto finale con Diana, quasi un inno ai baci. Il soprano ucraino Olga Bezsmertna riusciva a sdoppiarsi molto bene, nel ruolo di una Diana severa e appassionata, e in quello di un Giove-in-Diana un po’ sfrontato, dalle credibili pose mascoline. Véronique Gens incarnava una Giunone regale e austera, cha appariva in scena come una regina della notte, in un abito nero e sontuoso, imperiosa nelle sue arie sottolineate dagli ottoni, elegante nel fraseggio, impeccabile nelle fioriture. Ben caratterizzata la coppia Giove / Mercurio, uno nobile (Luca Tittolo), dalla voce ambrata e copiosa, l’altro arguto (Markus Werba), duttile, pieno di energia; così come la coppia dei buffi Satirino / Linfea (Damiana Mizzi e Chiara Amarù), frizzanti ma senza sguaiatezze.
La regìa di David McVicar si muoveva con il giusto equilibrio tra la realtà e il sogno, tra il gioco e il dramma. Inquadrava tutta la vicenda all’interno di una biblioteca-osservatorio astronomico (scene di Charles Edwards), su un palcoscenico rotondo, disegnato come un grande astrolabio, che aveva al suo centro un gigantesco cannocchiale (in parte simbolo fallico, in parte omaggio a Galileo e al secolo della scienza) puntato verso la volta celeste. Tutto partiva da quell’osservatorio, che all’inizio ospitava un simposio di scienziati, in severi abiti secenteschi (costumi di Doey Lüthi), e poi lasciava intravedere, dalle sue grandi vetrate, paesaggi bucolici, squarci di natura, boschi e cieli stellati, le fiamme di Fetonte e corsi d’acqua, tutti elementi che sembravano animarsi reagendo alle passioni umane. E come le sfere nel cielo, tutti si muovevano incessantemente su quell’astrolabio, le divinità spinte dalle loro pulsioni, dagli inganni, dai travestimenti, i satiri nei loro intrecci danzanti, tutti i personaggi che si spostavano su una passerella costruita attorno alla buca dell’orchestra, il cannocchiale che ruotava intorno al suo perno, le luci che creavano giochi di ombre, ed effetti siderali, dominati dal blu, l’opulento, sfarzoso carro di Giove che scendeva dal cielo, come un divino montacarichi. La regia dava, giustamente, risalto alla figura di Endimione: e tutto appariva come una specie di lungo sogno del pastorello-astronomo che alla fine, osservando le stelle, si addormentava seduto davanti al suo cannocchiale. Lasciando il pubblico, in estasi, ad osservare Calisto nella sagoma lontana dell’Orsa maggiore.