Inaugurata la stagione del Lirico con un titolo di raro ascolto. L’ultima volta in Italia si era vista a Trieste nel 1981. La regìa di Pier Francesco Maestrini ha saputo convincere all’ottanta per cento, salvo voler spiegare e giustificare tutto in un’opera che parte pur sempre da assunti di natura simbolista
di Attilio Piovano
OPERAZIONE CULTURALE DI INNEGABILE RILEVANZA, quella progettata e condotta in porto dal Lirico di Cagliari per l’apertura della stagione 2016: che ha avuto luogo la sera di venerdì 1° aprile con la rara Campana sommersa di Respighi (l’ultima volta in Italia la si era vista a Trieste nel lontano 1981); teatro gremitissimo e un parterre di critici e studiosi convenuti ad hoc. Operazione strenuamente voluta dal sovrintendente Claudio Orazi che ha deciso, coraggiosamente, di puntare su un titolo non certo di routine, una vera e propria sfida, scegliendo un’opera non di richiamo per il grande pubblico, un titolo pur tuttavia che – per una volta – non costituisce la classica curiosità connessa con una sorta di operazione di archeologia artistica: come troppo spesso accade invece quando si intende riproporre alcunché di obliato e uscito di repertorio per motivate ragioni. Sicché le aspettative erano notevoli, soprattutto per verificare la ‘tenuta’ di un autore passato alla storia in primis per la maestria della sua ‘mano’ sinfonica.
Colto ed informato sugli orientamenti della musica europea, Respighi in tale partitura non si mostra certo estraneo al côté d’Oltralpe, e allora echi riconoscibili di Debussy, ma in chiave assai meno alonata ed evanescente, certe assonanze che paiono richiamare le preziosità timbriche di un Dukas
E infatti, non a caso, proprio tale aspetto è quello che massimamente colpisce nella Campana. Sul podio Donato Renzetti, ben assecondato dall’Orchestra del Lirico in buona forma, ha saputo penetrare a fondo le molte risonanze di tale opera, evidenziando con gusto, cultura e raffinata eleganza, le varie componenti stilistiche che è dato inventariarvi (senza che per questo si possa parlare di eclettismo in senso deteriore). Renzetti ha lavorato a fondo sulla concertazione, restituendo al meglio le mille screziature della variegata e policroma strumentazione: e allora innanzitutto i molti ‘auto’ imprestiti dal versante sinfonico, con echi riconoscibili dalle Fontane di Roma (certe argentine atmosfere giocate con invidiabile maestria grazie alla mano sapiente di orchestratore che a Respighi non difettava di certo, forte di solidi studi con Rimskij, e basterebbero certe pennellate di clarinetti che paiono uscite da Schéhérazade), ma anche echi dal coevo Trittico botticelliano; certi tratti che il Waterhouse avrebbe definito di ‘pasticceria musicale’ per il lato fiabesco della vicenda e dunque per quanto attiene alla ninfa Rautendelein, parente prossima della dvorákiana Rusalka. E ancora Respighi non disdegna di palesare legami con Musorgskij, così pure con Ravel: talora osando aprirsi ad atmosfere smaccatamente novecentesche, salvo poi ripiegarsi più cautamente su climi un poco più passatisti.
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