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Sotto la direzione di Iván Fischer l’orchestra inaugura il festival di Stresa, violino solista Barnabas Kelemen
di Attilio Piovano
F estival bagnato… festival fortunato. Sì però… va bene un po’ d’acqua, uno di quei temporali estivi – per dire – che rinfrescano e tonificano, lasciandosi dietro una sensazione di benefica piacevolezza, specie in epoca di calure fuori ordinanza, ma una vera e propria tromba d’aria, un fortunale, insomma un mezzo uragano da ‘tropicalizzazione del clima’, con pioggia torrenziale, cielo nero come la pece per alcuni minuti, auto bloccate, alberi caduti, corollario di strade invase e via dicendo è ben altra cosa. È quanto accadeva l’altra sera, sabato 25 agosto, a Verbania e dintorni, sul lago Maggiore, intorno alle 20, poco prima dell’inizio dell’edizione 2012 dello Stresa Festival che, superato il giro di boa dei suoi primi 50 anni, con la creativa direzione artistica di Gianadrea Noseda e la lungimirante presidenza di Giovanni Medeot si appresta ad un luminoso futuro, «guardando avanti» – così titola l’editoriale in apertura del programma di sala – ovvero puntando ancora una volta su elevati standard qualitativi. Continuità nella tradizione e nel contempo novità, insomma nomi consolidati nel firmamento internazionale (da Jordi Savall alla Mullova, da Maisky alla Ibragimova, da Frank-Peter Zimmermann a Kathia Buniatishvili sul versante dei solisti, da Noseda a Gatti a Paavo Järvi sul fronte delle bacchette di lusso) e nuovi astri nascenti nel gotha della ‘classica’: è il caso della rivelazione Daniele Rustioni e così pure del giovane Francesco Pasqualetti che dirigerà una nuova produzione del «Barbiere»; e ancora, programmi accattivanti, ‘pensati’ con cura e spalmati dall’antico al contemporaneo, ovvero quel singolare mix di elementi, quella prodigiosa miscela alchemica che costituisce la magia del Festival lacustre attirando turisti stranieri ed il fedele pubblico degli appassionati di sempre, grazie altresì alla bellezza dei luoghi, ivi comprese le suggestive e ormai classiche locations delle isole Borromee.
Certo, poche ore prima nessuno avrebbe potuto immaginare la lunga teoria di signore fradicie, costrette ad un improvvisato cambio di toilette ed abiti maschili in parte vistosamente chiazzati di pioggia; ciò nonostante alle 20,30 in punto, quando la tempesta si era ormai placata e solamente le acque del lago restavano turbolente, la sala del Palazzo dei Congressi era gremita, pronta per il semi annunciato arrivo del Presidente del Consiglio Mario Monti, peraltro in forma strettamente privata, sorridente e discreto, come nel suo unanimemente apprezzato stile, molto british, e in conseguenza salutato da applausi protratti e convinti, pur improntati ad altrettanta sobrietà.

Al pari di molti altri critici e giornalisti abbiamo invano tentato di avvicinarlo: in molti avremmo desiderato infatti semplicemente manifestargli la nostra sincera gioia, esprimergli la soddisfazione di noi tutti, che operiamo nel settore della cultura e della musica in particolare, per questa sua gradita e sino all’ultimo quasi inattesa presenza che ci piace interpretare come un segnale più che positivo, la conferma, in tono soft e pure assertivo, da parte di un uomo colto, assai credibile e capace, che la cultura e la musica in Italia sono un valore di ‘eccellenza’ come usa dire oggi e come tali vanno mantenuti a livelli adeguati. Un servizio d’ordine discreto quanto giustamente fermo e rigoroso sorridendo ha continuato poi anche nell’intervallo ad arginare le nostre richieste di potergli rivolgere un semplice saluto, un cenno. Il Presidente del Consiglio ha poi presenziato per intero al bel concerto inaugurale (merita rilevarlo, in epoca in cui spesso da parte di altri si assiste a comparsate di circostanza mordi-e-fuggi): peraltro di certo Sindaco di Stresa e Presidente del Festival, che attorniandolo hanno fatto gli onori di casa con compostezza lungi da inutili sfavillii mondani, si sono fatti interpreti dei sentimenti dell’intero pubblico convenuto per fruire di una serata di ottima musica.
Sul palco la blasonata Budapest Festival Orchestra, una compagine di buon livello in quasi tutti i suoi settori (peccato per i contrabbassi un poco sacrificati sul fondo), ancorché non eguagli di fatto i maggiori complessi di fama mondiale, guidata con gesto esuberante, per lo più preciso ed efficace da Iván Fischer. In apertura un curioso fuori programma, una pimpante czarda espressamente in onore di Monti, secondo le parole di saluto dello stesso direttore, poi subito dopo la piacevolezza venata di nostalgico spleen dei bartokiani «Canti contadini ungheresi Sz 100» che paiono il sorprendente pendant, l’emozionante contraltare meno noto delle celeberrime e talora un poco inflazionate «Danze popolari rumene». Qui davvero l’orchestra è parsa del tutto a proprio agio, come navigando in acque territoriali ben cognite, sicché, grazie alla guida esperta di Fischer, ne ha restituito intatta la fragranza e quella inconfondibile freschezza fatta di modi folklorici ed arcaici echi modali, inflessioni desuete, giri melodici mai prevedibili o banali e una orchestrazione sagace e sempre variata (Bartók operò la collazione di tali canti nel corso di alcuni anni a inizio ‘900 e ne realizzò una prima stesura pianistica tra il 1914 ed il 1918, strumentandoli poi nel 1933).

Poi ancora Bartók con l’entrata in scena del fuoriclasse Barnabas Kelemen che (in sostituzione dell’indisposto József Lendvay) ha interpretato in maniera ammirevole il fascinoso «Concerto n° 1 per violino e orchestra», in due soli movimenti, composto tra il 1907 ed il 1908 per la violinista ungherese Stefi Geyer con la quale l’autore del «Mandarino meraviglioso» ebbe una breve quanto tormentata storia d’amore. Ne scaturì una pagina di grande ispirazione della quale Kelemenn ha magistralmente colto l’esprit, addentrandosi tra le spire delicate dell’iniziale «Andante sostenuto», entro il quale ha sfoderato un cantabile di rara bellezza (grazie anche ad uno strumento dal timbro scuro e corposo), intonazione pressoché perfetta, molta sensibilità, bei fraseggi, ottimamente assecondato dall’intera compagine orchestrale, fiondandosi poi nel successivo e contrastante «Andante giocoso», tutto guizzi e bizzarrie ritmico armoniche, giù giù sino al crepitante e festoso epilogo. Vere e proprie ovazioni e un bis – un paganiniano «Capriccio» (quello sui rapidissimi arpeggi, in mi maggiore salvo errori) – interpretato con impagabile magnetismo, ammirevole souplesse ed un virtuosismo (quasi) impeccabile.
Il clou della serata quanto a contenuto con l’impervia, sublime ed impegnativa «Quinta» di Mahler. Capolavoro notissimo del quale ognuno, ça va sans dire – direttori, musicisti, semplici audiofili – ha la ‘propria’ personale visione. E ovviamente ci sono svariate interpretazioni di riferimento, innumerevoli edizioni su cd, tant’è che chiunque, in tempi di ipod, è liberissimo di ‘comporsi’ la propria ideale versione, magari accostando il primo tempo di un’orchestra con il secondo di tutt’altro complesso e direttore, sicché, ad ogni nuovo ascolto, idealmente viene spontaneo confrontare ‘in tempo reale’, quanto viene proposto con una propria (ovviamente astratta, ideale ed irreale) versione. Detto questo – perdonino i fedeli lettori l’ovvietà di tale premessa – l’interpretazione di Fischer è parsa – come dire? – un poco a corrente alternata, con momenti certo di grande emozione ed altri meno, difettando nel complesso di unitarietà, velatamente frammentaria, sia pure – beninteso – fatto salvo il buon livello complessivo e l’innegabile qualità dell’orchestra. Ecco allora il movimento d’esordio, bene in complesso, anche se forse ne è risultato un poco annacquato il senso del tragico di quella Trauermarsch che conta – si sa – tra le pagine più intense dell’intero lascito mahleriano. L’avremmo voluta più macerata, più fatalistica. Se del secondo tempo poi Fischer ha colto nel complesso in maniera accettabile lo spirito ecco invece che nello «Scherzo» mancava quasi del tutto la capacità di trascolorare tra i momenti forzosamente lepidi (quegli accenni ammiccanti a valzer e ballabili, alla cosiddetta Trivial Musik) ed i tratti ora grotteschi, ora lunari ed onirici, mancava in altri termini il senso del grottesco, quell’ironia acidula e tagliente che di Mahler è un vero e proprio marchio di fabbrica, una cifra indelebile, un ingrediente irrinunciabile. Ed è stato un peccato, poiché Fisher è direttore sagace e sensibile oltre che concertatore (parrebbe) del tutto scrupoloso. Benino il celeberrimo «Adagietto», ma in altre occasioni sia pure dal vivo e con altre orchestre – impossibile negarlo – lo si è ascoltato ammantato da un ben più intenso pathos. Qualche eccessiva ridondanza sonora nel vasto finale, taluni squilibri fonici, di cui forse parte della causa va ricercata nell’acustica insidiosa e non omogenea del Palazzo dei Congressi (prima o poi occorrerà seriamente porre in atto l’ipotesi già adombrata di progettare ed allestire ex novo una vera sala, un vero auditorium allineato su moderni standard acustici) e così pure piccolissimi e a dire il vero quasi impercettibili scollamenti ritmici si sono registrati nei perigliosi e scoperti tratti contrappuntistici; da ultimo un epilogo affrontato comme il faut con altisonante ed effettistico crescendo. Forse sono mancate nel complesso, già lo si diceva, oltre ad una certa dose di ironia, una visione per l’appunto unitaria in grado di restituire alla «Quinta» mahleriana la curva di quell’arco mirifico che vi si dispiega, dalla soffocata e fatalistica fanfara della tromba all’esordio alle rutilanti atmosfere delle ultime misure: quasi percorso ideale e simbolico attraverso gli anfratti, i tormenti e le gioie della vita (e dell’arte che della vita è il riverbero). Applausi meritatamente molto festosi e protratti in chiusura di serata al direttore che ha inteso opportunamente valorizzare tutte le sezioni, a propiziare l’edizione del Festival che inaugura il percorso verso il… centenario. Altri saranno a recensire quella edizione, esattamente fra… 49 anni, ma di certo di qui ad allora, con tali premesse, questo è sicuro, il percorso è (quasi) tutto in discesa.