Il grande ed eccentrico violoncellista accompagnato al pianoforte dalla figlia Lily con un programma che ha accostato Granados, Albeniz, Cassadò, Sarasate, Schubert e Debussy
di Attilio Piovano
C ’è sempre una prima volta, per tutti: anche per i grandi e i grandissimi. Lui, il top dei violoncellisti nel panorama internazionale, a Stresa – per quanto strano possa apparire – non si era mai esibito, nonostante sia stato a lungo ‘corteggiato’ dagli organizzatori. Si è materializzato l’altra sera, durante l’intervallo del concerto della Gustav Mahler Jugendorchester, all’improvviso, abiti ancora più casual del consueto e un fare smagato, disteso e sorridente, assieme alla figlia Lily, lo sguardo assorto, come passasse da lì per caso, come se dallo struscio del lungo lago avesse deciso una deviazione di pochi passi verso il Palazzo dei Congressi. Non che sperasse di restare in incognito, per carità, del resto con la quella folta capigliatura ormai argentea e il profilo inconfondibile, beh, ecco passare inosservati sarebbe del tutto impossibile. E così tra gli aficionados e i fans, pur ancora assorti nelle brume wagneriane, appena emersi dall’onirico lirismo del violinistico «Concerto di Berg», in breve è stato un mormorio sommesso, un ammiccare di sguardi e di intese e il nome di Mischa Maisky affiorava come un fruscio eufonico sulle labbra di molti. Qualche istante appena ed un gruppetto già pronto alla richiesta (pur discreta) di autografi lo attorniava nella penombra dei pini secolari antistanti la sala: pregustando la gioia di raggiungere l’Isola Bella in vaporetto, la sera seguente (giovedì 30 agosto) nella luce magica del crepuscolo, il tempo di riempirsi gli occhi della vista impagabile del lungo lago dall’approdo sulla più suggestiva e fascinosa delle isole Borromee, fiondarsi verso lo scalone, varcare la soglia dell’elegante salone degli arazzi, prendere posto e vederlo finalmente avvicinarsi al palco, come per incanto dal buio del fondo sala. Silenzio assoluto poi le prime note dell’«Arpeggione» di Schubert iniziano a fluire con scorrevole naturalezza. Al pianoforte lo asseconda la figlia Lily, tecnica sicura e chiarezza di tocco (ancorché all’inizio lasci trasparire un pizzico di comprensibile tensione nello sguardo). Spesso Lily si volge verso di lui, lievemente malinconica, come per raccoglierne impercettibili segni, indecifrabili ammiccamenti. Maisky, al contrario, sapendo di poter contare su un’intesa ormai pressoché consolidata (intesa musicale, in primis, oltre che umana e per così dire biologica, come solo tra padre e figlia musicisti può esistere) tiene lo sguardo assorto, concentrato nel suo mondo spirituale finendo per infondere una indicibile sicurezza e ‘siglando’ la propria visione di Schubert: uno Schubert niente affatto macerato, ottimista e charmant. Il proverbiale cantabile di Maisky seduce subito e raggiunge poi vertici assoluti nel movimento lento striato di presagi brahmsiani. Quindi la serenità affabile del finale imbevuto di popolareschi accenti e quelle impennate gioiose che della celeberrima pagina sono uno dei contrassegni inconfondibili.
Poi, con ardito accostamento, a propiziare un programma dal taglio oggidì davvero inconsueto, ecco il Debussy della sublime «Sonata», vero testamento spirituale. E allora il colore brunito dello sfingeo «Prologue», poi quella scarna e assorta pensosità peculiare della tarda pagina debussiana restituita al meglio dai due interpreti. Lily, dal versante tastieristico, coglie assai bene il carattere estroso del tempo centrale interpuntato di bizzarrie ritmiche. La temperatura emotiva sale ben presto e l’intero pubblico apprezza enormemente la capacità di Maisky di penetrare il mistero di questo capolavoro, rivelandosi con esso spiritualmente in sintonia ancor più che in Schubert, a nostro avviso, come in stato di grazia, coronando poi il tutto, dopo aver alternato sonori pizzicati a delicate rarefazioni, con le incandescenze dell’irresistibile «Final» ed è un vero trionfo.
Dopo l’intervallo, durante il quale il pubblico degli habituées dissimula familiarità (senza dare ad intendere l’emozione che inevitabilmente si sprigiona) mentre i pochi neofiti – parecchi gli stranieri – lasciano invece trasparire l’ammirazione, rapiti dalla singolare ricchezza artistica della location e percorrono le vaste sale e gli ambienti dagli arredi preziosi, prevedibile cambio d’ordinanza di look e Maisky si presenta con blusa bluette. Le sorprese maggiori vengono però dal programma, tutto sul côté iberico, con un sapiente dosaggio di passi struggenti e solari ed estroverse danze: passaggi pirotecnici nei quali Maisky sfodera tutto il suo magnetismo e la sua stregonesca carica ammaliatrice e brani intimisti. Ecco allora Granados e Albeniz, e Cassadò e Sarasate e ancora Albeniz, in trascrizioni di lusso dello stesso Maisky e del mago Piatigorsky. Da ultimo, ad amplificare le emozioni nella notte umida e intrisa di aromi, la seduttiva bellezza della «Dança ritual del fuego» di De Falla, nell’efficace trascrizione del citato Piatigorsky: pagina evocatrice del mistero gitano, con quei suoi sortilegi ed il fosforescente sfolgorio dei ritmi, tra il mulinare delle mani di Lily, ormai sorridente, sicura e abile nello sciorinare sonorità corpose, e l’incessante vibrare delle corde del violoncello di Maisky dalle mille sfumature dinamiche e timbriche come solo i grandi sanno dispensare, in una ridda di fascinose immagini sonore che si imprimono in maniera indelebile e non fanno per nulla rimpiangere la versione orchestrale. E al termine è uno scrosciare di applausi, anche da parte di coloro che qualche velata perplessità avevano manifestato sottovoce per l’esordio nel segno di Schubert, apparso un poco estraneo in tale contesto, un programma come si usava negli anni ’20 e ’30, ma che ricchezza di contenuti e che coerenza. Ha inizio poi la lunga teoria dei bis, introdotti dalle parole in inglese dello stesso Mischa Maisky: una canzone catalana nella trascrizione di Casals con l’onomatopea degli uccelli evocati dal titolo stesso e le iridescenti figurazioni, poi un vivace calco stilistico a cura del novecentesco Scedrin, ‘à la manière di Albeniz, e ancora ritmi vividi, quindi, date le pressanti richieste, l’intimismo di un lied brahsmiano e, per finire, la melanconia indicibile e struggente di una canzone popolare russa: e negli occhi dei Maisky padre e figlia pare trascorrere il sentire di un popolo intero.
La fila interminabile del pubblico in attesa degli autografi e ancora applausi all’arrivo della coppia sul traghetto ormai gremito (che piacevole sorpresa scoprire che hanno democraticamente rifiutato il motoscafo privato, accettando di farsi immortalare da innumerevoli flash e telefonini, molti i giovani e tra loro parecchi i violoncellisti in erba) sono le immagini finali di questo indimenticabile concerto in una cornice da fiaba: dopo le foto ricordo sul traghetto stesso e quelle ufficiali con lo staff all’imbarcadero di Stresa, i titoli di coda, nelle orecchie un turbine sonoro ed il nostalgico refrain della canzone russa. L’ultimo sguardo al lago in notturna è una visione da cartolina mentre il pubblico percorre ordinatamente la passerella. Raggiungere l’hotel a piedi è di certo la scelta migliore: salire in auto e mettere in moto per chi abbandona Stresa la notte stessa pare un delitto, ancor più accendere la radio sul canale della ‘classica, meglio il monotono prendere giri ormai in autostrada o, in alternativa iconoclasta e dissacrante, per staccare e tornare nella realtà del post modern, tanto vale un brano rock qualsiasi: del resto lo stesso Mischa Maisky non disdegna certo magliette dark e giubbotto…
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