di Luca Chierici
Ne ha ottantotto ma non li dimostra, a parte l’incedere un poco tentennante tra le file degli orchestrali, accompagnandosi con un elegante bastone che appenderà alla balaustra appena dietro il seggio direttoriale.
Zubin Mehta è una presenza attuale e consolatoria nel mondo dei musicisti-interpreti che ancora popolano il pianeta e, nel caso dello scrivente, un compagno fidato che ebbi la fortuna di ascoltare per la prima volta a Salisburgo nel Luglio del 1970 nel suo concerto di debutto al Festival. Allora mi aveva colpito soprattutto nel Sacre di Stravinskij (ed era complice anche il mio primo ascolto del capolavoro del compositore) e Mehta svettava con la sua figura giovanile imperiosa e allo stesso tempo dolce, con il suo gesto preciso e insieme morbido. Oggi il gesto è poco più ridotto ma esatto come allora e il suo rapporto con l’orchestra meraviglioso, ricambiato con attenzione e affetto dagli strumentisti. Ieri sera si assisteva alla celebrazione combinata dei centosessant’anni della Croce Rossa italiana e della Società del Quartetto di Milano e il teatro era pieno all’inverosimile. A Mehta sono stati tributati applausi infiniti e festosi fin dalla sua apparizione sul palcoscenico e a maggior ragione al termine delle sue esecuzioni. Una lettura classica della terza Leonora di Beethoven, solamente un filo più lenta di quelle che ricordavamo dalle sue performance di un decennio fa a Ravenna e Firenze ma sempre tesa al raggiungimento di una climax che esplode nel finale bellissimo. E poi una settima sinfonia anch’essa magnificamente costruita, a parte la rinuncia ai ritornelli, e anch’essa cronometricamente più lenta del solito ma senza che si potesse avere la percezione della diversa scansione all’ascolto. I movimenti legati l’uno all’altro senza soluzione di continuità hanno portato a una esecuzione che partiva dal cuore, e offerta senza il supporto di una partitura.
Mehta ha ancora adesso una memoria infallibile, e con la stessa ha diretto il magnifico Maxim Vengerov, altro astro della serata, nel Concerto di Mendelssohn che solista e strumento (uno Stradivari ex Kreutzer del 1727) hanno cantato a meraviglia. Un bis bachiano ha confermato l’eccezionale figura del violinista. Che ha a lungo abbracciato il direttore, memore di altri incontri felicissimi nel passato (chi si dimentica un Concerto di Brahms interpretato dai due qualche anno fa alla Scala?). Serate come questa diventano sempre più rare e ci auguriamo di vedere ancora Zubin sul podio, come farà oggi a Firenze nella Turandot.