di Luca Chierici
LA notizia che non avremmo mai voluto recepire, tutti coloro che, appassionati, seguivano il suo modo di far musica e soprattutto noi che lo avevamo adorato fin quasi dagli esordi è arrivata lasciandoci un vuoto immenso, sia per il ricordo di un musicista e studioso di grandezza inarrivabile, sia per la mancanza attuale di personalità di spessore anche lontanamente paragonabile al Suo modo di accostarsi al pianoforte e alla sua letteratura. E ci mancherà certamente anche il Pollini politico, che prese forti posizioni a partire dal rifiuto di suonare per la “Società del Quartetto” contro i bombardamenti americani in Vietnam (19 dicembre 1972) fino all’intervento contro Berlusconi e il suo governo in occasione del convegno “Libertà e Giustizia” al Palasharp di Milano (5 febbraio 2011).
Del giovane Pollini si narravano episodi – alcuni testimoniati dalle registrazioni pirata – che stanno a metà tra la verità e la leggenda: il giovane ragazzo al quale il maestro Carlo Vidusso (grande virtuoso degli anni Quaranta e Cinquanta) pone sul leggìo gli Studi di Cramer, testo per nulla facile anche per un professionista provetto, e la risposta dell’adolescente che getta da un lato la carta per suonare a memoria gli stessi studi lasciando sbalorditi i presenti. O la lettura infallibile degli Studi op. 10 di Chopin in una casa privata (aveva poco meno di 14 anni) inaugurando una stagione di successi che lo porterà ad essere forse l’autore della più bella incisione in assoluto degli stessi studi, anni dopo per l’allora Deutsche Grammophon. O l’undicenne pianista che suona a memoria l’op. 106 di Beethoven e quello che entra in un famoso negozio milanese e si getta sulle Ballate di Chopin come se nulla fosse.
Quest’anno gli stessi spartiti ingialliti dal tempo, tenuti assieme dal nastro adesivo, erano tra le mani del Maestro in occasione di un recital scaligero che non avremmo mai voluto ascoltare perché testimonianza di un uomo sofferente per la malattia e non più in grado di rappresentare se stesso di fronte al pubblico.
Tra le due epoche, quindi per quasi sessant’anni, avevamo assistito a una sere di esecuzioni miracolose che fanno di lui certamente il più grande pianista di fine secolo, erede dei Michelangeli, dei Backhaus e degli Schnabel e allo stesso modo aperto come nessun altro alle creazioni di Luigi Nono, Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen.
Di quanti pianisti del passato si è detto: “ha saputo invecchiare benissimo”, da Backhaus a Rubinstein, da Arrau a Serkin gli esempi sono tanti, e persino Horowitz che in un primo momento sembrava non avere accettato questa condizione ineluttabile, alla fine mostrò una versione del tutto inesplorata del suo genio interpretativo. Nel caso di Pollini tutto ciò non è avvenuto e il Maestro ha insistito fino all’ultimo nel riproporre se stesso. È necessario dunque concludere non già che Pollini fosse innamorato narcisisticamente del proprio splendore pianistico della gioventù, bensì che per la sua concezione della musica egli non potesse mai discostarsi da un ideale interpretativo che non ammetteva deroghe, da una concezione della letteratura più impegnata, da lui amatissima, che non poteva sopportare alcun tipo di adattamento alle proprie capacità fisiche.
Ma sarebbe anche errato pensare che l’idea che per ciascuno di noi rimarrà del grande musicista sia legata indissolubilmente a questi caratteri giovanili e della prima maturità. L'”insistenza disperatissima” dell’ultimo Pollini non era molto dissimile da quella di un Cortot – artista dallo stesso Pollini amato sopra ogni altro – anche se in quest’ultimo caso i parametri più intimi di un pianismo miracoloso erano piuttosto differenti da quelli del Maestro appena scomparso. Mentre Cortot esercitò fin all’ultimo una capacità di incanto che derivava dal cesello del frammento, dalla compitazione di una singola frase intesa attraverso i parametri del fraseggio e del timbro, nel caso di Pollini ciò che interessava era la definizione dell’arco della frase, se non dell’architettura di tutta la stuttura portante di grandi composizioni che avevano fatto epoca al loro tempo.
Pollini era stato chiarissimo con gli intervistatori: «Suono la musica che più mi piace, che sento più rispondente alla mia indole» diceva senza mezzi termini, e con quelle scelte egli ha portato avanti per anni il suo esteso repertorio. Del resto Pollini sembrava far sua l’opinione di Claudio Arrau: “Se si è convinti che ciò che si vuole dire è unico, personale, allora non è questione di piacere o non piacere: tu hai quel messaggio da comunicare e ciò è sufficiente. Se piace, va bene, se non piace va bene lo stesso …”. Non sapremo mai, a meno che non saltino fuori altre registrazioni private, qual’era il suo Skrjabin o il suo Clementi o il suo giovane Brahms. E tutto questo dovremo immaginarcelo facendo leva sul suo ricordo e sulla sua predisposizione nei confronti della cultura e della tastiera. Una tastiera che oggi rimarrà muta e per sempre nella immaginazione di tutti noi.