Liszt musicista universale. Poesia e poeticità della sua musica
Non c’è compositore come Liszt che sia stato ammirato, idolatrato, al punto da diventare oggetto di culto, con una vera “Lisztomania” (vocabolo coniato dal poeta H. Heine nel 1840) all’epoca delle sue tournées trionfali in tutta Europa, con scene di entusiasmo per l’uomo, osannato come il più grande pianista mai esistito al mondo, il “Paganini del pianoforte”, ed anche di delirio femminile, ma al tempo stesso chiacchierato per la sua vita mondana, criticato come compositore, misconosciuto, sostanzialmente incompreso.
Tutti i pareri sono unanimi sul virtuoso, sull’influenza che esercitò sull’arte pianistica, sull’abnegazione alla causa dell’arte musicale, sull’opera benemerita di divulgazione della musica, sulla sua generosità e magnanimità d’animo, sugli aiuti morali e materiali che diede ai musicisti che si rivolgevano a lui, primo fra tutti Wagner; non altrettanto sulla sua figura di compositore e la sua opera. Invece fu il “più temerario esploratore del mondo sonoro al quale far risalire le conquiste del ventesimo secolo” (A.Gauthier), il “più ammirevole orchestratore che sia mai esistito” (M.D.Calvocoressi). Creò nuovi generi musicali (le Rapsodie ungheresi ed i Poemi sinfonici), e rivoluzionò le forme della Sonata, del Concerto per pianoforte e orchestra, e della Sinfonia, mediante l’arte delle trasformazioni tematiche. La sua originalità ed audacia straordinarie si sono ripercosse su tutta la musica dei compositori, da Wagner ai giorni nostri.
Eppure ancor oggi, a duecento anni dalla nascita e centoventicinque dalla morte, si discute sul suo nome e non è stata ancora pubblicata l’opera omnia delle sue composizioni che ammontano a 1400 secondo la catalogazione di Luciano Chiappari che ha attribuito un numero d’opus ad ogni singola composizione.
Il suo albero genealogico risale solo fino al bisnonno Sebastian List (sic). Anche il nonno Georg Adam, nativo di Ragendorf, e il padre Adam, nato a Edelstal, vicino a Presburgo/Bratislava (per secoli capitale del Regno d’Ungheria), si chiamavano List. Sia Ragendorf che Edelstal ricadevano in Ungheria, ma essendo zone vicine alla frontiera con l’Austria, erano a prevalenza linguistica germanofona e dopo la prima guerra mondiale passarono sotto l’Austria, nel Burgenland. Adam List, assunto nel 1798 a servizio del Principe Nicola II Esterhazy, non parlando l’ungherese, chiese di essere trasferito ad Eisenstadt, zona in cui si parlava tedesco, dove rimase dal 1805 al 1808 e poi a Raiding/Doborján, piccolo villaggio allora nel Comitato Ungherese di Oedenburg/Sopron, come intendente contabile di un enorme gregge di pecore e servitori. Qui nacque Franz la notte dal 21 al 22 ottobre 1811 e nel certificato di battesimo venne registrato come Franciscus List (sic); veniva chiamato Franzi o Zizy o Putzy e non conobbe una parola di ungherese fino al 1839. La mamma, Anna Lager, era austriaca, nata a Krems. Fu Adam List ad inserire la “z”, per evitare un errore di pronuncia perchè in Ungheria si sarebbe pronunciato “lisct”, mentre per pronunciare “list”, occorre scrivere “sz”, non immaginando che avrebbe poi indotto un altro errore allorché si trasferì in Francia, dove veniva pronunciato erroneamente “Liz”. Poiché Liszt era fiero di essere ungherese, anche se non imparò mai bene la lingua, quando intendeva affermare la sua nazionalità, scriveva Liszt Ferenz o Ferentz, secondo l’uso ungherese di anteporre il cognome al nome, ma solitamente si firmava, nelle lettere e sulle partiture, Franz o F. Liszt o Fr. Liszt, il che significa inequivocabilmente Franz. Sulla porta dell’appartamento a Budapest, ora Museo Liszt, appose una targa bilingue: Liszt Ferenz e Franz Liszt. Qualcuno sostiene che Liszt sia di origine slovacca come i suoi antenati, e propone Frantisek; ma la grafia più corretta, che sostengo, è quella adottata nelle enciclopedie in casi analoghi e cioè Liszt Franz [Ferenz].
Bambino prodigio, iniziò lo studio del pianoforte sotto la guida del padre, buon dilettante; a 9 anni si esibì in pubblico, ottenne una borsa di studio che gli permise di andare a Vienna, allievo di Czerny e di Salieri per la composizione. Nel 1823 si trasferì a Parigi, acclamato come “ottava meraviglia del mondo”. Conosciuta (31 dicembre 1832 o primi 1833) la Contessa Marie d’Agoult, sposata, da cui avrà tre figli/e, si recò con lei in Svizzera (1835) e in Italia, dal 1837 al 1839 e maturò l’idea di dedicarsi alla carriera concertistica che lo portò a percorrere tutta l’Europa con trionfali successi, cui pose fine nel 1847, all’apice della carriera. Accettato l’incarico di direttore del Teatro e Cappella del Granducato di Weimar, trasformò la città nel più importante centro musicale di Germania, faro dei musicisti che si recavano da lui per incoraggiamento e aiuto anche economico, dedicandosi alla direzione anche di prime mondiali, tra cui opere di Wagner, e alla composizione, con attività particolarmente feconda: moltissime composizioni per pianoforte, tra cui la Sonata in si minore, e per pianoforte e orchestra, tra cui 2 concerti e Danza macabra, 12 poemi sinfonici (il genere musicale della “musica a programma” da lui creato), le Sinfonie Dante e Faust, la Messa di Gran.
Recatosi a Roma (1860) per sposare la principessa Carolyne Sayn Wittgenstein, matrimonio reso impossibile da intrighi della famiglia dell’ex marito russo e del marito della figlia della Principessa, Liszt finì per vestire l’abito talare e ricevere gli ordini minori, dedicandosi alla composizione di musica sacra e religiosa, con l’intento prospettatogli di riformare la musica religiosa: Messe, Oratori (tra cui Christus), Salmi, Cantate, composizioni per organo e per coro. Stabilitosi a Roma, dal 1869 condusse una vita “tripartita”, come scrisse, alternando lunghi periodi fra Roma, Weimar e Budapest. Avrebbe desiderato essere sepolto a Tivoli, ma riposa a Bayreuth, dove morì il 31 luglio 1886.
L’opera di Liszt è di varietà estrema. Nulla di ciò che è grande gli fu estraneo, nella vita e nell’arte: uomo, poeta, musicista, il più cosmopolita del suo tempo, europeista ante-litteram, impregnato di cultura francese, tedesca, italiana, ecc., interprete dell’animo umano, Liszt è una delle figure più alte nella storia della musica, ed ha saputo esprimere tutte le situazioni e le fasi dell’anima umana, abbracciando la scala intera delle sensazioni, con una consapevolezza che non si riscontra in nessun altro musicista.
Rivoluzionò la tecnica pianistica, riuscendo a creare sul pianoforte gli effetti dell’orchestra, specialmente con le magistrali trascrizioni delle Sinfonie di Beethoven e della Sinfonia Fantastica di Berlioz. Con le sue trascrizioni, parafrasi e fantasie da opere, fu il più grande divulgatore di musica d’opera e svolse una azione ineguagliata per la conoscenza della musica di compositori contemporanei o del passato, in un’epoca in cui non c’erano mezzi di diffusione sonora. Fu il primo al mondo a suonare a memoria (18.2.1838 alla Scala), il primo ad inventare il recital, di cui coniò anche il vocabolo (9.6.1840), il primo ad inventare i “corsi di perfezionamento”.
Come compositore, fu uno dei maggiori scopritori di nuove terre musicali dell’800, giungendo perfino alla atonalità, esercitando una influenza enorme su schiere e generazioni di compositori che si sono ispirati a lui, sulla scia della “musica a programma” che però egli collocò molto al di sopra del semplice descrittivismo.
Senza disconoscere che Chopin è forse il più grande poeta del pianoforte, intendo rivendicare anche per Liszt il diritto ad essere considerato poeta del pianoforte – solo che non ci si faccia condizionare dall’aspetto tecnico e virtuosistico – sia riguardo al contenuto e alla poeticità racchiusa nelle sue composizioni e nel suo modo di suonare (documentato da varie testimonianze dell’epoca), sia perché, dato ancor più importante, per primo Liszt introdusse sistematicamente la poesia e la letteratura nella musica. Intendo sottolineare l’aspetto poetico in Liszt perché lui stesso disse a Marie d’Agoult, nel giugno 1839, che ambiva esser considerato come colui che “per primo aveva messo con qualche successo la poesia nella musica per pianoforte”, precisando che “vi si sente bene un pensiero, una poesia non comune.”
Tra i capolavori lisztiani, spiccano i Dodici Studi trascendentali (Etudes d’exécution transcendante), che per Busoni “basterebbero da soli a collocare Liszt fra i più grandi compositori per pianoforte”. Essi rappresentano non solo la “summa” più rappresentativa della sua fenomenale tecnica, ma ci mostrano in modo evidente tutta la loro dimensione poetica. La loro complessa gestazione, durata circa un quarto di secolo, tra la versione iniziale pubblicata nel 1826, priva di titoli programmatici, (rielaborata in Italia nel 1837/8 e pubblicata nel 1839), e quella definitiva del 1851, che realizza una impressionante fusione tra la poesia della prima e la brillantezza della seconda, ci fa comprendere meglio come questi studi rappresentino uno dei documenti più importanti del romanticismo musicale ed un momento chiave per l’evoluzione della scrittura e della tecnica pianistica.
Il titolo rappresenta una chiara indicazione che Liszt da tempo pensava ai poemi sinfonici, ed in effetti molte delle sue composizioni pianistiche, e tra essi alcuni di questi studi, sono dei poemi sinfonici, concepiti per un “pianoforte orchestrale”.
È errato ritenere che il titolo “trascendentale” implichi solamente delle difficoltà di ordine tecnico, perchè per Liszt il significato di “transcendante” era plurivalente: intendeva cioè non solo superare i limiti ed i vincoli del pianoforte, quanto il contenuto stesso dello “studio” e dell’ “esercizio”, per giungere al rivoluzionario contenuto “poetico”, contrapposto al contenuto “formale”, da cui scaturiscono i poemi sinfonici. Trascendendo il limite del più arduo acrobatismo strumentale, ed il carattere essenzialmente ineseguibile della versione precedente, Liszt puntò ad una visione sempre più purificata degli elementi puramente esteriori, superficiali, artificiosi, lasciando prendere il sopravvento al contenuto sonoro e sublimò l’intensa energia e l’ingegnosità tecnica in un trionfo di immaginazione poetica. Si possono quindi considerare come studi di espressione musicale che trascende la tecnica. Un punto di partenza, non di arrivo. Tutto è trascendente, esecuzione e ispirazione. Ovviamente superava le capacità del pianista medio, ma la difficoltà in Liszt non oltrepassa mai la fisiologia della mano né le possibilità umane. L’impossibilità diventa sempre possibilità. Gli studi di Liszt sono l’esempio più spinto di scrittura virtuosistica, specie nella prima “ineseguibile” versione; in essi ci appare l’artista romantico, nutrito di letteratura e poesia, che trasforma lo studio dal campo pedagogico a quello artistico, superando le finalità puramente didattiche e la tradizionale aridità e meccanica ripetitività dell’esercizio per pianoforte, e fa presagire quel rapporto di privilegio tra letteratura e musica che si trova nelle composizioni dette “a programma”.
Ma il virtuosismo di Liszt, inteso come bravura tecnica che trascende ogni concezione, porta al superamento del virtuosismo stesso e alla totale liberazione della tecnica che non è mai, in Liszt, un arido meccanismo, in quanto, come scrive Claude Rostand, “egli non fa della tecnica per la tecnica, ma la tecnica per la musica”. In essa egli fuse l’elemento virtuosistico, quello letterario e culturale e le tensioni romantiche.
Dal confronto con le versioni precedenti degli “Studi trascendentali”, che contengono già la stessa fonte musicale, abbiamo la prova lampante che Liszt non aveva scritto questi studi per illustrare o descrivere musicalmente trame narrative, poetiche o paesaggistiche. L’aggiunta del titolo avvenne al termine del lungo percorso creativo, con la raggiunta consapevolezza di voler rinnovare la musica mediante la sua emancipazione dalle forme codificate e mediante “una sua più intima alleanza con la poesia”.
Liszt aveva fatto proprio il concetto romantico della musica intesa “come linguaggio che rivela il senso intimo e poetico delle cose, l’idealità che è in tutto” e che “attraverso la bellezza della forma, risveglia nell’anima sentimenti ed idee”. Per lui, la musica strumentale tendeva a “diventare non più una semplice combinazione di suoni, ma un linguaggio poetico” e gli appariva “più adatta, forse, della poesia stessa a esprimere tutto ciò che supera gli orizzonti abituali”, tutto ciò che parole ed immagini non possono dire.
I titoli li appose quindi molto probabilmente per evitare che gli studi venissero considerati dei semplici esercizi meccanici, e per fornire agli interpreti ed agli ascoltatori le indicazioni per meglio disporre l’animo e la fantasia all’accoglimento dei contenuti poetici ed espressivi in essi racchiusi.
Introducendo volutamente un dato di natura extra-musicale nelle sue composizioni pianistiche e sinfoniche (specie nelle raccolte Album d’un voyageur, Années de Pèlerinage I, II, III, nei 13 Poemi sinfonici e nelle 2 Sinfonie), Liszt si attirò le critiche dei puristi (in particolare di Eduard Hanslick), sostenitori tradizionalisti della “musica assoluta”, fedeli ai canoni classici ed ai generi musicali della sonata, del concerto e della sinfonia, che lo accusarono di inquinare in tal modo la musica. Se però Hanslick si fosse solo degnato di considerare le prime due versioni degli studi di Liszt, prive di qualsiasi titolo allusivo, si sarebbe accorto che l’abbinamento con un significato letterario-descrittivo era stato proposto da Liszt solo per superare il contenuto tecnico della pagina pianistica, per porre la tecnica non fine a se stessa, ma al servizio di una idea poetica seppure inafferrabile, e che insomma Liszt avrebbe potuto attribuire alle proprie composizioni un nome qualsiasi perché il riferimento al dato extra-musicale era avvenuto a posteriori. Partendo da un dato tecnico, per trascenderlo, lo aveva trasformato in immagini di paesaggio, di colore, di ricordi letterari, di impressioni, per suggerire qualcosa di più all’ascoltatore, perché Liszt aveva scoperto il misterioso potere evocativo della musica, la sua capacità di dare corpo sonoro ad uno stato d’animo. Superando gli orizzonti e gli schemi tradizionali a favore di un linguaggio poetico, Liszt si aprì a forme musicali inesplorate, precursore e profeta della schiera di compositori che si rifecero a lui.
L’immagine visiva, la visione paesaggistica, quella poetica o artistica, l’ispirazione religiosa, tutte le situazioni dell’anima umana, la scala intera delle sensazioni, i sentimenti umani, tutto ciò che alimenta la nostra attività interiore, erano come un tutt’uno in Liszt, che veniva espresso musicalmente come ingrandito, trasfigurato, idealizzato. Diventava il simbolo dell’uomo.
La musica per Liszt non era solo un esercizio meccanico né solo un godimento dei sensi, ma “una delle manifestazioni umane per cui non va separata dalla vita dell’umanità ma va considerata in stretta relazione e reciproco scambio con essa”. Per Liszt la musica doveva essere il “linguaggio dei sentimenti”, doveva esprimere “le passioni ed i sentimenti che sono nel cuore dell’uomo”, tradurre “in suoni i più intimi misteri del suo destino”, non doveva aspirare soltanto al “bello”, ma adempiere anche a compiti educativi ed etici, mediante una nuova espressività, che descriveva immagini, sentimenti, idee, e che egli teorizzò nel concetto di “Musica dell’avvenire”. Il programma talvolta aggiunto a posteriori o solamente adombrato nel titolo, gli serviva per dare l’essenza al soggetto e slancio al suo pensiero, per tradurre l’ispirazione analoga a quella del poeta, per facilitare la comprensione all’ascoltatore. Cercando di penetrare in tutti i campi dello spirito, Liszt aprì all’immaginazione del compositore gli orizzonti inesplorati del visivo e del letterario. “Qui il sublime è ovunque”, scrisse Cortot.
Liszt aveva fatto una scelta audace e rivoluzionaria, e ciò aveva urtato i critici parrucconi, insensibili alle novità, e quanti gli manifestarono una opposizione provocata dalla sua genialità, perché, come disse Lord Byron, al quale Liszt assomigliò molto, “Al talento si può anche perdonare, ma contro il genio si è inesorabili!”.
Liszt non se ne curava, perché, come scrisse nel febbraio 1874, la sua sola ambizione “era e sarà di lanciare il mio giavellotto negli spazi indefiniti dell’avvenire.”
Luciano Chiappari
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