di Attilio Piovano
E dunque Le Villi, ovvero in assoluto la prima opera di un giovanissimo e già talentuoso Puccini, andata in scena per la prima volta al Dal Verme di Milano nel 1884 (dopo il capzioso rifiuto al concorso Sonzogno) e poi subito rimaneggiata: approdò al Regio di Torino già nel mese di dicembre di quel medesimo anno e poi, per quanto singolare possa sembrare, mai venne ripresa nel capoluogo subalpino.
Tra il 1884 ed il 1892, poi, vi furono ben quattro versioni a seguito di revisioni e modifiche. È noto il giudizio di Verdi che mostrò di apprezzare l’opera, sia pure con cautela e riserve sull’eccesso di sinfonismo. Il titolo iniziò poi a circolare assai precocemente, ad Amburgo venne rappresentata nel 1892 con la direzione di Mahler e approdò al mitico Metropolitan newyorchese già nel 1908, per la direzione di Toscanini.
Il torinese Regio ha pertanto ottimamente pensato di riproporla ora, a 140 anni da quella storica première, nell’ambito delle celebrazioni pucciniane per il 100° della morte. Il tema, si sa, affondando le origini in una leggenda nordica, ovvero slava, narrata da Heine, è il medesimo del balletto Giselle di Adam: ma a quanto pare il Fontana (librettista) la derivò da Les Willis (1852) di Alphonse Karr. E dunque la Foresta nera, i due giovani Anna e Roberto che si amano e sono promessi sposi, la necessità del protagonista di partire alla volta di Magonza per una questione di eredità, i luttuosi presentimenti di Anna (che molto ricordano il weberiano Franco cacciatore), la morte di Anna stessa per dolore, l’oblio di Roberto che si lascia irretire da una cortigiana. Ma poi Roberto ritorna al villaggio scorgendo il fantasma della fidanzata morta che gli ricorda le promesse d’amore. Roberto è sconvolto e pentito, ma ormai è troppo tardi. Anna si è trasformata in una delle Villi, misteriose creature morte per il dolore di essere state abbandonate e assetate di vendetta, sicché a seguito di una danza frenetica e infernale, Roberto viene ghermito dalle Villi stesse, e costretto a danzare sino alla morte.
Un soggetto che – verosimilmente – non doveva essere del tutto congeniale al giovane Puccini. Ciò nonostante, fatti salvi i (moderati e contenuti) debiti ad un certo gusto di natura wagneriana, Puccini già preannuncia in questa partitura elementi originali, specie sul piano armonico, e in tal senso il capolavoro assoluto è la Tregenda, vera e propria tarantella di morte, non a caso entrata de jure nel repertorio sinfonico. Vi sono inevitabili squilibri e incongruenze di registro, per dire il lungo recitativo drammatico del second’atto pare più un tributo pseudo accademico alle maniere verdiane che non una pagina davvero sentita. Vi è, inoltre, la bizzarria dell’intervento di una (enfatica) voce narrante. Detto ciò l’opera, pur con le sue più o meno vistose manchevolezze e grazie ai suoi indubbi pregi (quello stesso sinfonismo criticato da Verdi), regala momenti di innegabile emozione.
Il nuovo allestimento del Teatro Regio è davvero di gran classe e decisamente suggestivo. Non a caso la sera di venerdì 19 aprile 2024 ha registrato un successo pieno e convinto, con copiosi e prolungati applausi a fine serata e sinceri apprezzamenti, specie al versante visuale dello spettacolo, e con qualche (giusta) riserva sul piano del cast. La regia di Pier Francesco Maestrini è davvero di classe; evita di scadere nell’oleografia e di fatto convince. Ottime le scene di Guillermo Nova che si avvale anche dell’ormai ultra collaudato, ma in tal caso efficace espediente delle proiezioni. E allora ecco l’evocazione di una nordica e brumosa foresta, un bosco che nel second’atto pare strizzare l’occhio a certa pittura romantica (segnatamente sembra rimandare all’ambientazione notturna della celebre Abbazia in un bosco di querce di Caspar David Friedrich ovvero, più ancora, richiama La croce accanto al Baltico del medesimo), ma notevoli e significativi si rivelano anche altri dettagli.
In apertura, con un innegabile effetto, si vede una scena borghese, i costumi sono sontuosamente ottocenteschi, per precisa dichiarazione del regista intendono rimandare all’epoca di composizione, all’ambiente letterario (e figurativo) della Scapigliatura e via elencando, una giostra rimanda all’idea della danza e va bene, ha un suo perché, anche se in realtà i protagonisti sono montanari e l’opera si apre su una festa paesana in una casa ‘modesta’ dinanzi alla spianata del bosco (così la dida, e si pensi al bozzetto originale di Hohenstein). Per la scena di apertura dell’atto secondo (“l’orgia oscena”) il regista, lo scenografo e il costumista Luca Dall’Alpi hanno inteso delineare un ambiente in cui a predominare è il celebre quadro di Courbet La femme au perroquet del 1866, collocato sul fondale, in enormi dimensioni e un poco sghembo, dinanzi al quale sfilano figure a suggerire l’ambiente moralmente degradato del bordello.
Le maggiori suggestioni visuali sono tuttavia nella parte finale dell’opera, come già si diceva, e un plauso speciale va al coreografo Michele Cosentino (anche assistente alla regia) per come ha ‘risolto’ la scena delle Villi che annientano Roberto, una scena di indubbia efficacia, grazie alla grande bravura di mimi, danzatori e danzatrici; qualche ragionevole perplessità sulla ‘sparizione’ di Roberto, ghermito per l’appunto dalle Villi, che ne strappano il cuore e lo offrono come un trofeo ovvero un feticcio al fantasma di Anna. Ha destato qualche sorpresa e qualche perplessità, appunto, taluno si domandava se tanto valesse presentarlo sanguinolento e stillante gocce purpuree, in stile Grandguignol, ma regista e scenografo non hanno osato tanto, insomma non si sono spinti ai limiti del kitsch che pure era stato sfiorato, grazie ai figuranti, nella scena dell’orgia dominata dal citato e ‘licenzioso’ quadro di Courbet.
Ed ora il côté più squisitamente musicale. Bene la direzione di Riccardo Frizza, nonostante qualche iniziale incertezza e qualche squilibrio fonico qua e là, avremmo voluto poi più vigore ancora nella celebre Tregenda di cui il direttore ha invece dato una lettura misurata e quasi neoclassica, senza eccedere in truculenze demoniache (qualche brivido in più lo avremmo desiderato). Tiene bene in pugno l’orchestra, cesella con cura dettagli armonici e melodici, contando su una compagine in gran forma che ancora una volta ha risposto assai bene, sfoderando una palette timbrica apprezzabile, belle dinamiche e preziosità varie qua e là dove occorre. Meno convincente il versante delle voci. Roberta Mantegna (soprano) nei panni di Anna, dalla voce pur duttile, rivela asprezze e disomogeneità che rischiano di invalidarne, almeno in parte, la pur buona prova. Anche sul piano scenico è parsa lievemente impacciata. Azer Zada (che ha sostituito l’indisposto Martin Muehle) dopo qualche iniziale incertezza è andando convincendo di più nel prosieguo dello spettacolo, ma la sua voce stenta a raggiungere l’intera platea e come si suol dire manca di proiezione. Bene (non a caso è stato il più applaudito a fine spettacolo) il baritono Simone Piazzola nel panni di Guglielmo Wulf. Da citare ancora le ottime e perfettamente funzionali luci di Bruno Ciulli, livide dove occorre e volte a rendere l’inquietante stimmung del plot, e un pieno e convinto bravò, come sempre, all’intervento del Coro del Regio, ottimamente istruito da Ulisse Trabacchin.
Insomma, uno spettacolo di notevole qualità e valore, merita ribadirlo, soprattutto sul piano ‘visuale’ del quale conserveremo a lungo memoria. Con la sincera speranza che la partitura, frutto di un Puccini venticinquenne, già geniale, ma ancora alla ricerca di se stesso, non latiti per i prossimi 140 anni e riappaia, sia pur misuratamente in cartellone, accanto ai celebri e invero ben più riusciti capolavori che il pubblico da sempre ama.