di Gianluigi Mattietti
Negli spazi della Maison communale de Plainpalais, il Festival Archipel ha anche quest’anno stimolato la curiosità di un pubblico vasto ed eterogeneo, offrendo abbondanti e varie esperienze d’ascolto, molto lontane dal tradizionale format del concerto frontale.
Ha esplorato le più varie forme di arte sonora, dove i generi tendono ad ibridarsi, con diversi spettacoli basati su strumenti musicali inventati, manufatti, oggetti sonori frutto di ingegnosi e spiritosi bricolage, come dimostravano le performances di Arthur Chambry, Lukas De Clerck e Ragnhild May, in un concerto realizzato nella sala giochi del palazzo, e intitolato Abus de souffle. Protagonisti erano flauti e oggetti gonfiabili, in un’atmosfera surreale e gioiosa, dove sbiadivano i confini tra artificiale e naturale, tra umano e meccanico, tra materiale e immateriale: un apparecchio simile all’Airmachine di Ondřej Adámek, dotato di numerose valvole e controllato da un software, veniva collegata attraverso lunghi tubi di gomma a dei flauti a becco sparsi qua e là tra il pubblico; un castello gonfiabile diventava uno strumento musicale; una palla da pilates veniva usata come cornamusa, per accompagnare le tristi nenie di un moderno trovatore. L’aria e il soffio erano il filo conduttore anche dell’istallazione Of Breath, Sea and Sound del collettivo laschulas, che intrecciava discipline artistiche diverse in un unico flusso creativo, combinando insieme flauti Paetzold, respiri ansimanti, testi recitati e un dipinto su carta (proiettato su un grande schermo), che Lucía Simón Medina realizzava nel corso dell’esecuzione, contribuendo anche alla dimensione musicale con gli effetti percussivi di matite e pennelli (amplificati). Nella sala dell’acusmonium (con 80 altoparlanti), uno spazio imbottito, dove gli spettatori erano invitati a distendersi, si è ascoltata la musica estrema di Steven Takasugi: in Strange Autumn (2004) due interpreti (Mark Knoop e Serge Vuille), seduti impassibili di fronte a un tavolo con microfoni a contatto, compivano gesti minimi, calcolati e amplificati, parole strozzate, suoni gutturali (da un testo di Wieland Hoban), graffi, soffi, sfregamenti sulle pagine di un grande quaderno, rumori di una penna che scrive; all’opposto, erano dominati da sonorità estroverse e un po’ trash i tre pezzi acusmatici di Takasugi, Skurril (2022), Trapped Animals: An Allegory (2020) e Diary of a Lung (2007), basato su un’antica fiaba popolare giapponese.
Anche un concerto in apparenza più tradizionale sulla carta, con l’esecuzione di 12 lavori di autori diversi, affidati a due eccellenti ensemble (Ictus e Contrechamps), era in realtà impaginato in maniera insolita, secondo lo schema della “Liquid Room”, brevettato anni fa dall’Ictus: uno spettacolo senza intervallo e senza applausi tra un pezzo e l’altro, con i musicisti che si muovevano tra quattro palchi posizionati ai lati della sala, eseguendo i diversi lavori come un flusso ininterrotto, con un accorto gioco di luci, lasciando al pubblico la possibilità di muoversi in sala e di sperimentare diverse situazioni di ascolto. Fil rouge del concerto erano tre lavori storici di Robert Ashley, della sua fase post-moderna, basati sull’uso delle voce parlata-sussurrata al microfono: l’oracolare Tap dancing in the sand (1982), sostenuto da una sequenza meccanica di accordi e da soffocate fioriture strumentali, che imitavano le inflessioni del parlato; un estratto da Perfect Lives (una serie televisiva del 1983, ambientata nel Midwest americano, che sembrava anticipare le composizioni-film di Johannes Kreidler), dove la voce scorreva impassibile su un accompagnamento strumentale ritmato e ripetitivo; The Indifference Text (1990: tratto dall’opera The Improvement) con un testo sillabato come una salmodia su un’armonia statica. Un carattere salmodiante, nella Liquid Room, aveva anche un altro pezzo storico, ma ancora di grande appeal, come O Superman (1981) di Laurie Anderson, dove la voce risuonava come una specie di coro (grazie al vocoder), sullo sfondo di pulsazioni di una sillaba (ha), come un messaggio lasciato dalla madre di Superman nella segreteria telefonica del figlio. Due delle Rational Melodies (1982), la X e la XV, di Tom Johnson erano invece un magnifico esempio della sua musica algoritmica “fatta a mano”, capace di evocare preludi di Bach o variazioni sul Dies Irae con semplici giochi combinatori e procedimenti additivi. Meccanismi ripetitivi caratterizzavano anche le delicate Five Miniature in Three Parts (2008) di Bryn Harrison, dall’effetto incantatorio, come i canoni di Aldo Clementi. Un impatto decisamente più fisico avevano invece i lavori di Sarah Nemtsov e Jessie Cox: in Implicated Amplification (2014), per clarinetto basso, la compositrice tedesca giocava su amplificazioni, distorsioni, prolungamenti elettronici di suoni, per cerare musica densa e ruvida, «un suono terroso, con polvere e sporcizia, fango, pietre»; The Drum is a Tree (2024) e Re(mnants): of Woods and Skins (2024) di Cox riflettevano su crisi climatica e razzismo, dando voce alle forze della natura, al legno e alle pelli del tamburo, alla voce che ne metteva in vibrazione la membrana, con ondate di suono che coinvolgevano gli strumentisti dislocati sui quattro palchi. Completava la Liquid Room un bellissimo lavoro per voce e tastiera di Jennifer Walshe, intitolato Trí Amhrán (2019), nato dalla volontà di creare, grazie all’uso dell’intelligenza artificiale, una sorta di folklore sintetico, un’immaginaria enciclopedia (alla Borges) della cultura musicale irlandese: si trattava di canzoni bervi, piene di humour, mirabilmente interpretate dal soprano Nina Guo (da tenere d’occhio) tutte stilisticamente molto connotate, interrotte da fratture improvvise, accompagnate occasionalmente anche da una tromba e da un violino che suonavano muovendosi tra il pubblico.
Una vera scoperta è stato infine il trio per violino, violoncello e pianoforte If and only if (2019) di Eric Wubbels, affidato all’ottimo trio Thrips (Maximilian Haft, Jan-Filip Ťupa e Gilles Grimaître). Un organico classico, dunque, ed un contesto esecutivo molto normale. Ma in realtà niente di questo lavoro, che occupavano l’intera serata, rimandava a un trio della tradizione cameristica. Gli otto movimenti erano giocati su divisioni infinitesimali degli intervalli (con intonazioni regolate da rapporti matematici predefiniti) e su campi armonici abilmente differenziati, con una straordinaria varietà di gesti strumentali e trame sonore inaudite. Si alternavano zone ripetitive, momenti improvvisamente statici, dominati da lunghi bicordi dissonanti, episodi materici di cluster del pianoforte, ritmi ossessivi e ticchettii legnosi (con le ultime corde del pianoforte bloccate col patafix), selvaggi momenti danzanti. Un gioco calcolato di tensioni, basato su movimenti obliqui (una linea ascendente o discendente in contrasto con una linea fissa, come un orizzonte sonoro immobile), su forze centrifughe, metamorfosi, dissolvenze, ritorni ciclici, variazioni metriche, che creava un percorso a spirale, un continuum movimentato e trascinante, come un turbine sonoro che avvolgeva gli ascoltatori.