
Dall’altra sera alla Scala, la riproposta di una regia ormai storica, ancora di grande successo dopo cinquant’anni. Giovane e bravo il direttore Daniele Rustioni, non memorabile l’interpretazione vocale; ma intanto si attendono due nuovi protagonisti
di Luca Chierici
L ’altra sera alla Scala si dava la prima rappresentazione di Bohème, con la consueta storica regia di Zeffirelli. Una visione completa dello spettacolo l’avremo solamente a fine ottobre, dopo che ai due protagonisti della “prima” (Piotr Beczala e Angela Gheorghiu) si aggiungeranno il Rodolfo di Vittorio Grigolo e la Mimì di Anna Netrebko. Sia la Gheorghiu sia la Netrebko sono veterane del ruolo di Mimì, anche se la seconda ha iniziato più tardi per ovvi motivi anagrafici; la Gheorghiu e Grigolo hanno appena cantato Bohème a Seoul con Chung; la Netrebko e Beczala sono reduci invece dalle recite salisburghesi di quest’estate con Daniele Gatti. Il capolavoro pucciniano è affidato quest’anno alla direzione del giovane e bravo Daniele Rustioni che compirà sicuramente in prospettiva una bella carriera e che ha guidato l’orchestra con contagiosa partecipazione e con una buona conoscenza dei mille trabocchetti interpretativi della partitura.
Ma diciamo pure che il trionfatore della serata inaugurale del 26 settembre è stato il quasi novantenne Franco Zeffirelli: giunto alla ribalta su una carrozzina, visibilmente commosso, ha ricevuto una standing ovation da parte del pubblico e un affettuoso saluto dai cantanti che si sono accovacciati, addirittura inginocchiati attorno a lui. La regia di Zeffirelli rappresenta davvero un invariante di successo alla Scala. Durante un periodo di quasi 50 anni (la prima fu nel 1963), la sua lettura di Bohème è passata indenne attraverso la concertazione di direttori quali Karajan, Prêtre, Kleiber e Gavazzeni e ha guidato sul palcoscenico la presenza di molti cantanti importantissimi. Ma la regia non può tutto e ai cantanti è ovviamente richiesto anche di calarsi nel personaggio, di rivivere se possibile quell’alchimia di emozioni che libretto e musica suggeriscono.

Bohème riveste certamente un ruolo primario nel repertorio di tutti i teatri e di tutti i cantanti e proprio per questo motivo si tende oggi a ricorrere spesso a protagonisti vocali appartenenti allo star system. O almeno questa è la scelta operata dalla Scala quest’anno, dopo esperienze precedenti che avevano anche valorizzato il contributo dei giovani solisti dell’Accademia. E non importa se, come è avvenuto, la dizione di Piotr Beczala lasciava spesso a desiderare, non importa se la presenza della Gheorghiu era più adatta a soddisfare i gusti non proprio sottili di certe platee tedesche o americane piuttosto che quelli di coloro (ma dove sono finiti ?) che erano abituati ad applaudire la Freni o la Scotto.
Lo svedese Beczala possiede una presenza scenica invidiabile e si ispira a un fraseggio correttamente mediato dalla tradizione. Ma il timbro di voce, pure autorevole, è troppo uniforme e non eguaglia certo per bellezza quello di un Kaufmann. L’emissione è poi piuttosto statica, monotòna, avara di mezze voci. Esageratamente affettata e bamboleggiante, la Gheorghiu ha peccato di una overinterpretation che non ha contribuito certo a rendere memorabile la serata, così come non l’ha resa memorabile la Musetta generica di Ellie Dehn. In tutti e tre i casi sarebbe imbarazzante tirare in causa questioni troppo raffinate riguardanti la cosiddetta conversazione pucciniana. Del resto più un’opera è conosciuta ed eseguita, maggiori sono i dettagli che l’ascoltatore si attende di verificare, anche quando il rispetto assoluto degli stessi può sconfinare in una eccessiva stilizzazione o in un manierismo altrettanto criticabile. Compito difficilissimo del grande artista è appunto quello di far apparire spontaneo e quasi improvvisato ciò che in realtà è frutto di studio e di innumerevoli prove.
La cronaca di questa Bohème ha registrato grandi applausi per tutti e nessun tipo di contestazione da parte di un pubblico che una volta si permetteva di criticare (spesso a sproposito) le Caballé e i Pavarotti. È cambiato il gusto? In parte sì, ma è soprattutto cresciuto il grado di assuefazione a quel mostruoso macchinario che si chiama marketing e che ha investito in pieno già da tempo anche il mondo della musica. Non rimpiangiamo certo gli eccessi delle serate di una volta, ma invocheremmo un briciolo in più di senso critico da parte del pubblico odierno, formato dallo spettatore abitudinario, dal giovane entusiasta, dalle Autorità, dai coreani che sono lì soprattutto per vedere la Gheorghiu e portarle i fiori all’uscita, dall’anziana signora che magari va alla Scala dai tempi di Karajan e come unico commento prega il marito, la prossima volta, di fissare un abbonamento due posti più in là, al riparo dagli spifferi.
© Riproduzione riservata