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Il confronto tra culture, religioni e “mondi diversi” è stato il leitmotiv del festival che, nonostante i tagli alla cultura, ha realizzato 29 appuntamenti
di Luca Chierici
I l Direttore artistico Alberto Triola è già immerso nei preparativi per la trentanovesima edizione del Festival della Valle d’Itria, che nel 2013 vedrà l’apertura con un titolo verdiano a suo dire “desueto”. Ma Triola è giustamente riservato e scaramantico sui dettagli del programma generale che deve attendere comunque l’approvazione definitiva da parte degli investitori, preoccupati della sostenibilità dello stesso per gli immancabili attuali problemi economici.
Eppure il bilancio dell’edizione appena trascorsa (29 appuntamenti che hanno avuto luogo a Martina Franca e dintorni tra il 14 luglio e il 2 agosto) è del tutto positivo, se si tiene conto del fatto che il calendario previsto è stato rispettato in ogni sua parte in barba ai tagli che già nel corso della prima parte del 2012 sembravano rappresentare un ostacolo insormontabile.
Primeggiavano sul numero straordinariamente alto di spettacoli due titoli che rappresentano il legame più stretto con la tradizione cellettiana del festival, rivolta sia al recupero della vocalità settecentesca più funambolica che a quello dell’omaggio alla tradizione belcantistica. Con l’Artaserse di Hasse ci siamo trovati immersi in un clima di emozioni che la naturale scenografia del Palazzo Ducale di Martina ha reso ancora più vive, come se lo spettatore si sentisse proiettato nella Venezia del 1730 che aveva ospitato la prima rappresentazione dell’opera. Lavoro straordinariamente ricco di ottima musica e soprattutto pensato anche in base alle possibilità di un cast originale da capogiro, con il famoso Farinelli nel ruolo di Arbace. Il ruolo dei sopranisti nel recupero del teatro d’opera settecentesco è stato ed è fondamentale, ma si è evoluto negli anni appena passati con una rapidità insospettata. L’iniziale anelito al raggiungimento di un’estensione vocale paragonabile a quella dei mitici esempi del passato ha trovato via via la sua corretta evoluzione in un modo di porgere stilisticamente ineccepibile che contribuisce al rinnovo degli antichi splendori in maniera ancora più convincente. Già ammirato nei due anni precedenti in Rodelinda e nell’Aureliano in Palmira, il sopranista argentino Franco Fagioli ha riscosso anche quest’anno un successo enorme: si è ammirata in lui sia una evoluzione puramente tecnica nella capacità di omogeneizzare i diversi passaggio di registro che una totale immedesimazione nel ruolo tali da evocare i pure irraggiungibili esempi che ci sono stati tramandati solamente attraverso le cronache dell’epoca. Elemento di parziale rottura era rappresentato in questo Artaserse dalla regia di Gabriele Lavia e dalle scene di Alessandro Camera, che seguendo la traccia suggerita da Triola come leitmotiv del festival (l’incontro-scontro tra culture, religioni e mondi diversi) esasperavano gli elementi di conflitto trasportando l’azione in un Medio Oriente attuale, teatro di violenti scontri tra guerriglieri e invasori occidentali. Elemento certo non nuovo e comune a molte regie di opere ambientate in quei luoghi (quante se ne ritrovano nel repertorio sette-ottocentesco!) ma proposto qui con un mordente che ha persino scandalizzato parte del pubblico più tradizionale.
Anche Zaira, quasi un Ratto dal serraglio belliniano, era pienamente in linea con il tema del conflitto tra Oriente e Occidente. Ma qui più che l’elemento scenico ha nuovamente attirato l’attenzione del pubblico la concertazione espressiva di Giacomo Sagripanti, un direttore lanciato dal Festival che sta percorrendo una carriera davvero promettente. Certo non si può mettere in scena Zaira senza il concorso di un cast di tutto rispetto, e qui hanno brillato sia l’attesa protagonista, il soprano Saioa Hernandez, che i bravissimi Simone Alberghini, Anna Malavasi, Enea Scala.
La parte meno tradizionale di un Festival che a dire il vero tradizionale non lo è mai stato consisteva quest’anno nell’opera commissionata al compositore aquilano Marco Taralli, che ha lavorato su un ambizioso libretto di Vincenzo De Vivo ambientato nel capoluogo abruzzese devastato dal terremoto. Forse è stato questo l’appuntamento che meglio ha interpretato il tema scelto quest’anno per il Festival, pur lasciando aperti tutti gli interrogativi legati alla validità odierna di un linguaggio musicale che non sia apertamente sperimentale. La compositrice Daniela Terranova ha infine rivisitato con gusto l’Orfeo di Luigi Rossi, unico titolo che non veniva rappresentato seguendo i criteri filologici sempre rispettati fin dai primi lavori proposti dal Festival alla fine degli anni ’70. Operazione temeraria ma ben riuscita grazie anche alle delicate scene di Benito Leonori.
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