Il ritorno tanto atteso al Teatro alla Scala del grande direttore dopo 26 anni di assenza lo ha visto impegnato con maestria nel “Primo” di Chopin, solista Barenboim, e con straordinaria partecipazione nella Sinfonia del compositore boemo
di Luca Chierici
[IL] ritorno di Claudio Abbado alla Scala dopo 26 anni di assenza e la luttuosa coincidenza della scomparsa della sorella Luciana riportano alla mente ricordi mai sopiti di una stagione milanese (e non solo) che vedeva il fiorire di appuntamenti culturali straordinari anche come risposta civile verso anni di piombo che non vorremmo avere mai vissuto. I cicli mahleriani e bruckneriani di Abbado, le serate di Musica nel nostro tempo, gli appuntamenti al Teatro Tenda, le presenze di Pollini in prima linea a Cinisello, rappresentano momenti incancellabili durante i quali la musica che ascoltavi si poneva in diretta relazione con la vita di ogni giorno, con il sociale. Molte cose sono cambiate da allora. Le fulgide carriere internazionali di molti protagonisti dell’epoca e il fenomeno ad ampio spettro della globalizzazione hanno sì proiettato in un contesto più vasto quella che era una realtà culturale locale, ma si è perso inevitabilmente quel senso di appartenenza un poco campanilistico che era motivo d’orgoglio di un’intera città. Abbado ha percorso la strada che tutti conoscono e tra le altre cose ha sviluppato la propria devozione verso la musica di Mahler fino a raggiungere degli esiti interpretativi insuperabili, grazie anche alla straordinaria compagine orchestrale che ha saputo formare a Lucerna. Molti spettatori presenti in teatro ieri sera conoscevano bene la sua sconvolgente lettura della Sesta sinfonia per averla ammirata in televisione o addirittura per essere stati presenti alle due indimenticabili serate svizzere dell’agosto del 2006. Daniel Barenboim, che negli anni ’70 molto raramente si vedeva a Milano, oggi è nelle condizioni di rivestire il ruolo del padrone di casa che invita l’amico di lunga data. Per quanto riguarda Pollini… non mi risulta che la sua città e il suo teatro gli abbiano tributato un analogo, più che doveroso omaggio per i suoi 70 anni.
Non è possibile eseguire in maniera convincente la Sesta senza poter contare su un’esperienza di vita che conosca anche i confini della sofferenza interiore. In tal senso Abbado, qui e in altre partiture particolarmente dense di emozioni, sembra ogni volta mettere a nudo la propria anima e svelare affinità profonde con i testi amatissimi, anche al di là dei significati puramente musicali
Il programma di ieri (che era stato anticipato da una prova aperta lunedì nel tardo pomeriggio, con grande affluenza di giovani) ha fatto precedere l’atteso appuntamento mahleriano da una esecuzione del Primo concerto di Chopin. Non ci sembra che il direttore abbia ripreso in mano questa partitura dai tempi di una fortunata incisione con la Argerich nel 1968 ma, se lo ha fatto oggi, ha dimostrato non solo di essere in grado di seguire affettuosamente gli estri interpretativi di Barenboim ma anche di sottolineare con grande maestria un accompagnamento tutt’altro che banale. Il solista ha questa volta messo in particolare luce il lato cantabile del Concerto, recitato seguendo un raffinatissimo “Art du chant appliqué au piano” fatto di sussurri, di frasi ampie (spianate, si direbbe in terminologia chopiniana), di effetti timbrici straordinari. La corretta propensione al rallentamento del discorso non era però a volte bilanciata da un maggior brio e forza nei passaggi di velocità: un peccato, perché l’op. 11 tira in causa anche argomenti di salda costruzione formale e contiene degli sviluppi in stile severo che, oltre ad essere bellissimi, costituiscono parte integrante e davvero essenziale del linguaggio chopiniano e sono esattamente complementari al versante melodico della composizione.
A parte una certa affinità tonale, la distanza tra il Concerto e la Sesta sinfonia di Mahler è abissale e a nostro parere non contribuiva alla impaginazione ideale del programma. Sta di fatto che è stato sufficiente ascoltare l’incipit aggressivo, rude del capolavoro mahleriano per proiettare i presenti in un universo totalmente differente, che è poi quello che ha dato l’impronta alla serata tutta. Rispetto alle già citate esecuzioni di Lucerna, non cambiava qui certo la prospettiva di interpretazione da parte di Abbado (che anche in questo caso ha scelto la prima versione della Sinfonia) né la bravura delle compagini orchestrali, rappresentate dagli elementi della Filarmonica e dell’Orchestra Mozart impegnati come non mai ad assecondare le richieste del direttore. Cambiavano invece le condizioni di ascolto: la sala svizzera del cosiddetto KKL restituisce una profondità di suono che la Scala, pur con tutti i lavori di restauro, non è capace di offrire. Ieri sera si ascoltavano certi dettagli strumentali in maniera più chiara, ma si perdeva parte della magia del Wald mahleriano, con quella miscela inedita di timbri, complice la presenza dei famosi campanacci, che davvero ti trasportano in un attimo nel bel mezzo di un pascolo alpino. Per il resto la partecipazione del grande direttore all’immane tragedia che si dipana nei quattro movimenti della sesta è stata ancora tale da costituire una specie di elemento imprescindibile nei confronti della lettura della Sinfonia. Non è possibile eseguire in maniera convincente la Sesta senza poter contare su un’esperienza di vita che conosca anche i confini della sofferenza interiore. In tal senso Abbado, qui e in altre partiture particolarmente dense di emozioni, sembra ogni volta mettere a nudo la propria anima e svelare affinità profonde con i testi amatissimi, anche al di là dei significati puramente musicali. È questa una delle caratteristiche che lo rendono così vero, così amato dal pubblico che gremiva in ogni posto il Teatro e che alla fine, con le orchestre unite in giubilo e accanto a una rappresentanza di direttori e artisti amici di una vita (Chailly, Dudamel, Valentina Cortese, Carla Fracci…) gli ha tributato un vero e proprio boato di applausi che sembrava non avere mai fine.
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La Sesta nelle nelle memorie di Alma Mahler*
Enigmi, dunque. Come sempre in Mahler un po’ ingenuamente (artatamente?) alonati di mistero. Ma di che genere? Nel caso della Sesta molti di questi enigmi, o presunti tali, sono illustrati dalla sensibilità tutta femminile di Alma Mahler, moglie del compositore e vestale di un fuoco mai spento, loquacissima prima commentatrice di questa Sinfonia e delle sue ambiziose premesse filosofiche. Si comincia col ricordo di «quell’estate [del 1904 nella quiete di Maiernigg sul Wörthersee] bella, felice, senza conflitti. Alla fine delle vacanze Mahler mi suonò la Sesta Sinfonia, ormai completa. Dovevo rendermi libera da tutti i lavori di casa, aver molto tempo a disposizione per lui. Salivamo di nuovo a braccetto nella sua casupola nel bosco, dove eravamo sicuri di non esser disturbati, in mezzo agli alberi. Tutto ciò si svolgeva sempre con grande solennità». All’idillio segue l’autocelebrazione, con un’inattesa oscura premonizione molto “casa Mahler” (e par di leggere davvero il copione di una tragedia antica): «Dopo aver abbozzato il primo tempo, Mahler era sceso dal bosco e aveva detto: “Ho tentato di fissare il tuo carattere in un tema – non so se mi è riuscito. Ma devi lasciarmi fare”. È il grande tema pieno di slancio del primo tempo della Sesta Sinfonia. Nel terzo tempo [in realtà secondo, lo Scherzo] descrive i giochi senza ritmo delle bambine che corrono traballando nella rena. È spaventoso: le voci infantili diventano sempre più tragiche, e alla fine non resta che una vocina lamentosa che va spegnendosi. Nell’ultimo tempo descrive se stesso e la sua fine o, come ha detto più tardi, quella del suo eroe. “L’eroe che viene colpito tre volte dal destino, il terzo colpo lo abbatte, come un albero”». Queste sono parole di Mahler, assicura la signora e consorte. Non c’è ragione di dubitarne. Ma chissà che allegria in famiglia, la sera a cena.
Le parole conclusive di Alma sono invece ribollenti del sacro fuoco: «Nessun’opera gli è sgorgata tanto direttamente dal cuore come questa. Piangevamo quella volta, tutti e due, tanto profondamente ci toccava questa musica e quel che annunciava con i suoi presentimenti. La Sesta è un’opera di carattere strettamente personale e per di più profetico. Tanto con i Kindertotenlieder che con la Sesta Mahler ha messo in musica “anticipando” [scritto in italiano] la sua vita. Anch’egli fu colpito tre volte dal destino e il terzo colpo lo abbattè. Ma quell’estate era allegro, cosciente della grandezza della sua opera e i suoi virgulti erano verdi e fiorenti». Così Alma Mahler nelle sue Erinnerungen.
Sergio Sablich
* Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia, Roma, Auditorium Parco della Musica, 5 febbraio 2005, direttore Myung-Whun Chung
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