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Guardiamo o ascoltiamo? Prima l’immagine, poi il sapere, nell’epoca che inverte il contenuto con il contenitore. Si può fare diversamente? Riflessioni sul mercato e la musica nel nostro tempo
di Luigi Attademo
Qualche settimana fa, a Londra, un amico raccontava con stupore come un chitarrista – salito alla ribalta internazionale negli ultimi anni – fosse riuscito, primo tra tutti, a calcare il palcoscenico della Royal Albert Hall. Pochi giorni fa, vedo su una rivista americana riportata la notizia che il giornale specializzato Gramophone aveva dedicato a questa nuova stella del firmamento delle sei corde nientedimeno che la copertina, a trent’anni dall’ultima dedicata a un chitarrista (e quella volta si trattava di Julian Bream!). Sto parlando di Milos Karadaglic, in arte Milos e basta (solo quelli come me, che hanno puntualmente il cognome storpiato, possono apprezzare a pieno questa scelta). Si tratta di un giovane chitarrista, diplomato alla Royal Academy di Londra, la cui carriera ha avuto un’incredibile fiammata, tanto da portarlo (unico anche questa volta tra i chitarristi) a essere incluso nella lista degli artisti della IMG. Presentato (anche lui) come un nuovo Segovia – il nome del grande chitarrista spagnolo è purtroppo oggi e perlopiù usato per inutili paragoni – Milos ha anche pubblicato un cd per quella che fu la Deutsche Grammophon degli Yepes e dei Michelangeli, e ora ne promuove un secondo intitolato “Milos Latino”. Quello che soprattutto colpisce di questa new entry del panorama musicale internazionale, è il grande sensazionalismo che accompagna le sue gesta a fronte del repertorio scontato che propone nei suoi dischi e nei suoi video. C’è qualcosa che non funziona, mi dico, dalla prospettiva di sedicente intellettuale della musica che vuole applicare il principio di non contraddizione aristotelico a questo fenomeno dell’attualità. Ma forse la domanda è malposta. Forse l’errore è nostro, cioè di perseverare a usare le categorie con cui abbiamo giudicato i Segovia e i Pollini tempo addietro. Oggi tutto è cambiato, e noi – musicisti classici – rappresentiamo un passato che sta alle nuove forme di comunicazione come la radio sta alla televisione.
Il “fenomeno Milos” (come altri della stessa portata) va quindi guardato ben al di fuori della chitarra, come un fenomeno rappresentativo di una forma di commercializzazione della musica che a dire il vero nell’ambito pop è presente da decenni. La necessità di invertire il rapporto tra contenuto e contenitore è centrale. Milos suona nei suoi video poche note, accompagnato da una “base”: una cosa che da sola delineerebbe un contesto dilettantesco, a guardarlo con gli occhi del musicista tradizionale. E invece no, Milos al contrario è all’interno di un contenitore “epico”: location metafisiche (vedi la grande stanza vuota in cui suona Giochi proibiti), scenografie e regie tipiche del linguaggio dei video musicali e delle pubblicità, battage promozionale di enorme impatto, con pagine sui settimanali patinati e su quelli che un tempo erano i giornali culturalmente più altolocati, come Corriere e Repubblica. Si tratta di uno spiegamento di forze enorme, che determina due cose: la qualità musicale non è condizione sufficiente ad affermarsi; la qualità musicale (intesa come qualità interpretativa ed esecutiva) non è neppure condizione necessaria.
Questa inversione del rapporto tra contenitore e contenuto è entrato in profondità nell’ambito della musica classica, quasi che l’unico linguaggio compreso dal pubblico sia quello codificato dal glamour e che ritroviamo puntualmente in certe “belle foto” di giovani violiniste e violinisti.
Ma qual è il motivo di tanto successo? Se io faccio vedere a un mio allievo di conservatorio quello che fa Milos suonando Libertango sulla base MIDI, capisce che è poca cosa e che lì non c’è né bravura tecnica né arte. Dunque la risposta è ovvia: il pubblico non sa. Il pubblico – ovvero: il target di queste operazioni commerciali – è affamato di musica, ma non sa nulla di musica. O meglio, ha ormai come riferimento solo i codici interpretativi che televisione e media generalisti propongono come modelli: ecco quindi i linguaggi visivi da spot pubblicitario, la cura dell’immagine e invece nessuna attenzione per il suono e per la musica suonata. A nessuno interessa la qualità del suono di una chitarra, perché la maggior parte delle persone non sa più che differenza c’è fra un oboe e un flauto, e non sa se Beethoven è un musicista o un cane. Abbiamo dissipato quella che era una cultura popolare della musica, che passava per le canzonette, ma anche per le bande musicali, per la trasmissione orale di pochi rudimenti strumentali (si diceva «suona a orecchio»), a favore di un intellettualismo che ha fatto spesso danni. In risposta, abbiamo ricevuto un mondo che con la musica nulla ha a che fare, almeno con la musica che abbiamo studiato e che oggi ancora tentiamo di tramandare.
D’altro canto, sembra non esserci soluzione: il sistema è perfetto. Si crea l’evento, si crea la notizia sensazionale («il nuovo Mozart», «il più grande chitarrista del mondo», «il più grande interprete bachiano vivente», per citare solo tre idiozie recenti) ed ecco che una nuova verità mediatica si oppone a quella storica, quella dei libri, quella della tradizione, quella che si direbbe oggi “da rottamare”. E chi si oppone diventa o un critico invidioso o un barone esponente di un potere da cui il “nuovo” ci vorrebbe emancipare. E così una falsità, per il semplice fatto di essere detta, diventa perlomeno oggetto di disputa e antitesi di un passato ben più importante.
Personalmente non invidio Milos, se non per i tanti viaggi che fa nel mondo (anche se alla fine, come mi disse la vedova di Segovia a proposito del marito, «viaggiare tanto stanca»). Anzi, mi spiace per lui. Mi spiace per il fatto che sia andato a studiare alla Royal Academy e che poi questo non sia servito a nulla. Mi spiace che debba stare a suonare dei pezzettini risibili vestito da mannequin, e in contesti in cui la musica diventa l’ultima cosa per importanza, per poter avere successo. Quello che invece preoccupa, e ci crea anche un po’ di fastidio, è l’atteggiamento di chi si arrende o è addirittura complice di questa situazione: per esempio, per essere concreti, il direttore artistico di quella stagione di Trento che ha invitato recentemente Milos nel suo cartellone, oppure il direttore della rivista Gramophone che gli ha dedicato la copertina, o ancora colui o coloro che hanno chiamato il pianista ricciolo à la page al Teatro Carlo Felice di Genova a presentare il suo concerto per violino e orchestra. Gli esempi potrebbero continuare. Queste persone suppongo sappiano di musica, come si vede dalle programmazioni. E allora, perché cadere in questa trappola e dare spazio a quelli che sono nemici della musica. Mi si dirà: bisogna far venire la gente ai concerti. Sì, ma possibilmente proponendo loro musica, e musica bella e ben fatta, non un artefatto di marketing che in nulla contribuirà alla crescita culturale del potenziale pubblico. Ci sarà pure una differenza tra vendere macchine e organizzare concerti, o no?
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