di Attilio Piovano
Gran successo al Regio di Torino, la sera di venerdì 25 gennaio 2024, per l’attuale ‘riproposta’ dell’ormai più che ‘storico’ allestimento del donizettiano Don Pasquale con l’efficace e armoniosa regìa di Ugo Gregoretti – sagacemente ripresa con gusto e sobrietà da Riccardino Massa – le deliziose scene di Eugenio Guglielminetti e i movimenti mimici di Anna Maria Bruzzese: che, con la loro sapiente ‘sincronia’, rispetto alla partitura, aggiungono pigmento e accrescono il divertissement nei momenti clou (e non solo) della spassosa vicenda.
Lo spettacolo ha alcuni decenni (ma invero non li dimostra se non in minima parte. risale al 1988) ed è poi riapparso nel 2009 al Regio dove ora torna in un’ottima edizione con la direzione dell’esperto e scrupoloso Alessandro De Marchi e un cast di tutto rispetto. La regia ambienta l’opera in una Roma fastosa e colorata, intenzionalmente en plein air, con buona pace dei critici che reclamano (capziosamente) un Don Pasquale opera d’interni. Una Roma papalina memore, per dichiarata ammissione di Gregoretti stesso, delle miniaturistiche planchettes di Antoine Jean Baptist Thomas, dove c’è spazio per fasti architettonici barocchi e rovine, scorci oleografici e quadretti popolari. Una regia solare, luminosa e serena, ma anche molto ironica, punteggiata da una miriade di intelligenti, allusive e pur prevedibili gags che esaltano il tono parodistico della vicenda per lo più senza distrarre, al contrario rafforzando la trama stessa. Per dire: Don Pasquale che si gingilla con una canna da pesca e trae un indumento dal canale prontamente raccolto dai tre servitori macchiette, i camerieri stessi che spolverano con gesti meccanici al ritmo scorrevole della partitura, lavandaie intente al bucato e alla chiacchiera che poi pescano anch’esse – ponendosi quali arguto e significativo contraltare naïf delle parole languide di Norina – e ancora: l’accorata lettera d’addio di Ernesto che diventa una barchetta di carta e inizia il suo cammino sul pelo dell’acqua.
A far da corollario una miriade di comparse, già a partire dalla Sinfonia avanti l’opera. E allora: popolane, ragazzini mariuoli e piccoli ladruncoli teppistelli, bimbi vocianti, un prete, viaggiatori inglesi con guida turistica, bandierina e abiti ad hoc, giocolieri, un pittore intento a schizzare carboncini (poi nella scena notturna sarà egli stesso a ‘pescare’ una pittoresca luna, quasi frittella luminescente e ad appenderla in cielo), saltimbanchi che non si lasciano sfuggire l’occasione di cacciare in testa a Don Pasquale un metaforico copricapo ‘animalesco’ con tanto di emblematiche corna. Perfino un aerostato e una fontana e come taluno ha fatto notare, scene che «paiono disegnate in china».
Il culmine drammaturgico è nel momento del massimo sconforto, più propriamente di vera disperazione, da parte del povero Don Pasquale, pentito per la scelta insana di essersi sposato. «È finita Don Pasquale, più non romperti la testa. Altro a fare non ti resta che andarti ad affogar». Ebbene, in quel punto esatto la scena muta di botto: luci livide e s’avanza un mesto corteo con un condannato a morte tra le guardie in uniforme, a precedere il boia incappucciato e un frate con la croce. Certo, è un’idea estranea al libretto, ma del tutto in sintonia e, soprattutto, perfettamente funzionale a far emergere lo stato d’animo del gabbato protagonista. E ancora si potrebbero citare le performance di Don Pasquale e Malatesta che nel momento dello sciogliligua-nonsense raggiungono la sala attraverso due praticabili ai lati del palcoscenico e coinvolgono nella loro gestualità il maestro rammentatore e lo stesso direttore, al quale ghermiscono comicamente la bacchetta, salvo restituirla in un baleno. Insomma uno spettacolo divertito, che diverte e convince, senza sovrastrutture intellettualoidi, ma anche senza gratuite sortite, privo di certe cadute di gusto corrive che oggi paiono sempre più spesso divenute la norma (ottime le luci di Vladi Spigarolo, bellissime quelle della scena in notturno, coi lampioncini e molti dettagli).
Ancora un particolare della regìa: efficace quell’angioletto musicante con tanto di tromba a dar corpo alla vera tromba in orchestra che mestamente rileva il pathos di Ernesto in apertura dell’atto II.
Ed ora il versante musicale. La direzione, innanzitutto. Che De Marchi sia un professionista navigato e di valore è noto a tutti; il suo ‘gesto’ s’impone fin dalla Sinfonia iniziale, affrontata con slancio, souplesse, giusto ritmo, cura dei particolari ed eleganza. Così dicasi in media dell’intera lettura di De Marchi, attento a valorizzare i timbri e capace di finezze, pur senza (quasi) mai sovrastare le voci che per lo più asseconda con naturalezza. Buone dinamiche, tempi incalzanti dove occorre, ma anche indugi e libertà flessuosa nei fraseggi. Orchestra del Regio in buona forma, efficace in tutte le sue sezioni.
Ed ora le voci. Il basso Nicola Alaimo si lascia apprezzare appieno e felicemente nel ruolo del protagonista. Buona vocalità, dizione chiara, convince e diverte senza esagerazioni, ha una gestualità ricca, ma non sbracata, insomma raccoglie consensi e più che meritati applausi (affiancato nelle repliche dall’esperto Lucio Gallo). Tuttora sorprendentemente aitante la vocalità del navigato tenore Antonino Siragusa (il cui timbro ‘particolare’ ad alcuni non a torto non piace, ma tant’è), sale ancora passabilmente nel registro acuto, ha proprietà d’accenti, intelligenza interpretativa, discreta finezza e si muove bene. E pazienza per alcune défaillances di intonazione più o meno vistose. Resta pur sempre un beniamino del pubblico e gli applausi se li porta a casa.
Quanto a Norina la valida Maria Grazia Schiavo ha saputo conferire giusti toni al personaggio, quando ancora veste i panni della schiva Sofronia, salvo poi realizzare magnificamente quel ribaltone comico che tutti s’aspettano e divenire una moglie autoritaria e volubile, pronta a mutare arredamento, dare ordini a servi e cocchieri e via dicendo. Canta con voce limpida e molta grazia, ma anche con humour (bene i suoi ‘a parte’, «è un babbione»…). Peccato per qualche eccessiva intemperanza all’acuto. Irresistibile il finale d’atto con l’animazione di modiste e tappezzieri innescata da Norina stessa, ottima voce e valida attrice (gran successo nel duetto ‘notturno’ «Tornami a dir che m’ami»). Davvero molto bene il Malatesta sbozzato dal baritono Simone Del Savio, divertente e appropriato (fin dall’iniziale «Bella siccome un angelo»), vocalmente di notevole rilievo, efficace sotto tutti i punti di vista. Un cenno merita altresì il notaro dell’apprezzato Marco Sportelli dagli impacciati e goffi movimenti, comme il faut; un plauso speciale infine al sempre ottimo coro del Regio (memorabile «Che interminabile andirivieni» dall’allure quasi rossiniana), coro ben istruito dal neo direttore Ulisse Trabacchin che si conferma professionista di alta levatura. Pieno successo di pubblico.