di Attilio Piovano Foto Todd Rosenberg Photography
Prima tappa italiana della tournée della Chicago Symphony Orchestra, a Torino, presso l’Auditorium ‘Agnelli’ del Lingotto, la sera di venerdì 26 gennaio 2024. Sul podio Riccardo Muti e un fascinoso programma, davvero ben impaginato, per intero volto a ‘celebrare’ l’Italia attraverso significative pagine.
Sala gremita all’inverosimile, molti i vip e, soprattutto, un pubblico di appassionati e competenti audiofili (parecchi provenienti anche da fuori) per uno degli eventi in assoluto più attesi dell’intera stagione di Lingotto Musica.
Comprensibilmente il concerto – in coproduzione con la Città di Torino ovvero con la Fondazione per la Cultura Torino (artefice di MiTo) – era infatti sold out da tempo. Ed è stato un trionfo assoluto come era facile prevedere, dato l’elevatissimo livello della compagine statunitense, tra le maggiori formazioni mondiali che da molti anni non si riaffacciava sulle sponde del Po, e soprattutto – beninteso – per il felice ritorno nel capoluogo subalpino di uno dei direttori più amati e celebrati del nostro tempo che sarà poi ancora a Torino in febbraio per dirigere al Regio una nuova produzione del Ballo in maschera.
Di rilievo inoltre la finalità filantropica del concerto, inteso a sostenere la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul cancro, ovvero le attività dell’Istituto di Candiolo, una delle eccellenze italiane e punto di riferimento internazionale nel campo della ricerca e cura oncologica.
Le premesse per il trionfo c’erano tutte. E dunque – lo si anticipava – un programma oltremodo ricco di appeal: un florilegio tutto mediterraneo per intero inteso a mostrare come in musica il fascino dell’Italia abbia esercitato (e di fatto continui ad esercitare) una notevole attrattiva. E allora ecco in apertura – introdotta ‘in voce’ piacevolmente e insolitamente dallo stesso Muti che ha preso la parola a inizio serata – una pagina (in prima italiana) dovuta al minimalista statunitense Philip Glass, classe 1937: ha per titolo «The Triumph of the Octagon» ed è stata espressamente composta per la blasonata Chicago Symphony (2023). Trae ispirazione dall’assai celebre e coreografica fortezza federiciana ubicata in Puglia (a Castel del Monte), costruita su un impianto per l’appunto ottagonale (e si pensi come in passato autori del calibro del fiammingo Dufay, scrissero brani ispirati all’architettura, nel caso specifico traendo spunto dalla Cupola fiorentina del Brunelleschi) pagina che si pone inoltre quale vero e proprio omaggio a Muti e alla sua terra d’origine. «Il mistero che avvolge questo antico maniero dalle suggestioni simboliche e l’unicità enigmatica delle sue forme geometriche – afferma Philip Glass – sono stati per me formidabili catalizzatori».
Di un brano fondamentalmente tonale si tratta, da Muti stesso definito «un pezzo mistico», con striature modali e incantevoli concatenamenti armonici, una composizione che pare tendere all’infinito: fondata su una struttura per così dire a doppio climax, un flusso emotivo continuo e un progressivo crescendo, grazie all’accumulazione di materiali timbrici e armonici, un fluire di arpeggi principalmente degli archi, cui i restanti strumenti d’orchestra recano contributi col loro pigmento coloristico, impercettibili varianti, qualche prudente poliritmia e altro ancora, giù giù sino alla netta cesura finale (un po’ come nel celebre Adagio di Samuel Barber), dal sicuro impatto emotivo. Non a caso il pubblico ha applaudito copiosamente, a riprova di come la musica contemporanea non sia solo per addetti ai lavori e possa tuttora trasmettere emozioni. E subito si è compreso che la serata sarebbe stata a sua volta un crescendo di emozioni.
In seconda posizione non poteva mancare l’effervescente Sinfonia ‘Italiana’ che il giovanissimo Mendelssohn concepì in occasione del suo soggiorno nella Penisola (1830-32); assecondando un vero e proprio must, come diremmo oggi, che imponeva ai colti intellettuali romantici (musicisti, pittori, letterati) di recarsi nel «Bel Paese dove fioriscono i limoni», per dirla con Goethe, autore di un assai noto «Viaggio in Italia», al fine di completare la propria formazione, grazie al cosiddetto Grand Tour, dunque abbeverandosi ai tesori d’arte, archeologici, paesaggistici e quant’altro della nostra Terra.
Del primo movimento pimpante e asserivo, tutto impennate e incandescenze, Muti dà un’interpretazione molto neoclassica e apollinea, dunque imprimendo scorrevolezza e souplesse, ma – giustamente – senza quegli eccessi di eccitazione dionisiaca che talora (purtroppo) è dato ascoltare. Ne è emersa una visione come rigenerata, come beneficamente improntata a valori di eufonia, euritmia e sobrietà che di fatto colgono al meglio l’esprit del capolavoro giovanile. Ammirevole in orchestra la perfezione assoluta delle singole sezioni, il gioco delle imitazioni, ottenute con una simbiosi che ha del prodigioso tra direttore e professori d’orchestra, una chiarezza adamantina e una interpretazione per così dire apodittica, insomma una vera lezione di stile. Impressioni poi confermate appieno nel tempo lento che profuma di presepe napoletano, con il suo carattere popolaresco e folklorico e quel ‘passeggiato’ pseudo barocco che Muti ha distillato con cura estrema e una sensibilità timbrica a dir poco indicibile. Poi ecco la fluidità del grazioso e suadente Minuetto tutto morbidezze e preziosità coloristiche. Da ultimo il Saltarello conclusivo, in realtà una sfrenata tarantella in cui Muti ha sbrigliato l’orchestra, lasciandola (in apparenza) libera d fiondarsi in una danza ebbra e gioiosa, ma in realtà con mano sorvegliatissima. Che gioia il gioco delle imitazioni, le incandescenze degli ottoni e molti altri dettagli ancora sino al calibratissimo crescendo conclusivo che strappa applausi entusiasti e meritatissimi. Ancora una vera lezione di stile.
E non si sapeva se ammirare maggiormente i singoli dettagli, messi a fuoco con una chiarezza incredibile, grazie alla bravura della compagine, o la visione d’insieme volta a ‘puntare’ sull’eccitato finale, una visione che – si diceva – muovendo dalle guardinghe atmosfere dell’esordio, si scioglieva poi in tripudio dalla luce squisitamente mediterranea. Indimenticabile.
Così come indimenticabile è stata l’interpretazione della superba fantasia sinfonica Aus Italien dalle policrome screziature (1886), frutto del geniale e appena ventiduenne Strauss dove c’è spazio per atmosfere solenni e ieratiche, che a tratti ricordano certi passi della Alpensinfonie, come pure per passaggi incandescenti. Una vera e propria vetrina per l’orchestra che ha modo di svelare sfolgoranti fanfare degli ottoni, una pasta degli archi di notevole venustà, legni dolci e pur incisivi, percussioni icastiche e mobilissime e molto altro ancora. Muti ne pone in luce la coesione armonica non meno dei singoli dettagli ritmici e così pure timbrici. Un’interpretazione analitica e nel contempo per grandi pennellate che seduce fin dall’attacco, giù giù sino all’ultimo quadro costruito sulla popolare melodia di Funiculì Funiculà del Denzi (1879), il cui testo fu ispirato dall’inaugurazione della prima funicolare che conduceva al Vesuvio e che anche il torinese Casella adotta nella sua rapsodia Italia. Brillantezza luminescente degli ottoni e rarefazioni incredibili, una capacità scaltrita e rabdomantica di evitare il rischio della magniloquenza (che in Strauss si sa è sempre dietro l‘angolo) e una mano come sempre felice, quella di Muti, nel condurre all’apoteosi una pagina tanto immediata quanto profonda, nel porre in luce sia la trasparenza orchestrale di certi passi quanto la compattezza di altri.
Da ultimo la gioia di un bis che è stato un doppio hommage a Puccini, nell’anno del centenario della morte ed a Torino: dove Manon Lescaut venne eseguita per la prima volta nel 1893. E allora dell’Intermezzo di tale opera, eseguito in chiusura di serata, con le sue effusive linee melodiche e le sue armonie di infinita seduzione, ecco che conserveremo a lungo un gradito ricordo. A coronamento di una serata davvero unica e, a suo modo, irripetibile.
di Luca Chierici Foto Todd Rosenberg Photography
Non c’erano dubbi sull’attrattività di un concerto scaligero con Muti e la splendida Orchestra di Chicago e così è stato puntualmente, a sala piena, anche se il programma non era certo nuovo per i seguaci del direttore ed ambedue i pezzi forti del programma erano già stati ascoltati in anni precedenti con i Filarmonici del Teatro e con la Philadelphia Orchestra.
Immutati i tempi e la concezione che Muti ha dei due elementi del programma, che possono essere – almeno il primo – criticati fin che si vuole. Aus Italien non è certo il migliore tra i poemi sinfonici di Strauss, ma da qui ad asserire che sia stato concepito appositamente come scherzo musicale per prendere in giro l’intellighenzia bavarese ce ne corre. Abbiamo sufficiente documentazione per garantire come Strauss credesse fermamente nel programma e nello sviluppo di questo lavoro che a volte può apparire fin pacchiano, almeno a noi italiani che guardiamo con sufficienza e molto snobismo a certa napoletanità (cosa che a Muti dà ovviamente assai fastidio). Sta di fatto che l’esecuzione di questo poema sinfonico esce perfetta dal gesto del direttore e non si sa se ammirare dell’orchestra la perfezione dei singoli componenti, l’obbedienza assoluta al gesto del Maestro che è sempre più preciso, sfumato, capace di cavare ogni segreto dalla partitura. E la stessa quinta sinfonia di Prokof’ev, per quanto tacciabile di propagandismo, esce dal gesto di Muti come colosso orchestrale che fonde architettura formale e gesto di giubilo sincero tale da raccogliere fin dai primi tempi l’entusiasmo sia del pubblico e della critica nazionale che quello di direttori e compagini occidentali che la inseriranno nel loro repertorio. Anche in questo caso Muti analizza fin nel minimo dettaglio le complessità della scrittura e tramuta in emozione tutto ciò che a prima vista può sembrare frutto di una ricerca minuziosa quanto sterile.
Sul terreno dei bis si è rimasti su un terreno domestico – si perdoni la scelta più che ovvia visto il luogo nel quale tutto ciò veniva ufficiato – con l’Intermezzo dalla pucciniana Manon e soprattutto con la Sinfonia dalla Giovanna d’Arco di Verdi, altro elemento non nuovo uscito dalla bacchetta del direttore ed eseguito con tutta la maestrìa del caso. Le capacità analitiche di Muti, il suo rapporto professionale ma anche amichevole con l’orchestra, la sua forza che non viene scalfita dagli acciacchi dell’età meritano l’applauso più sincero e la speranza di rinnovati ascolti nella città che lo ha professionalmente formato.