di Cesare Galla
Circola in Rete, facilmente rintracciabile, una straordinaria fotografia scattata da Gianni Berengo Gardin nel settembre 1984 a San Lorenzo, la chiesa sconsacrata di Venezia dov’erano in corso le prove del Prometeo di Luigi Nono, in vista della prima esecuzione assoluta.
Il compositore è seduto per terra al “piano-base” (sollevato rispetto al pavimento dell’edificio) dell’arca lignea progettata da Renzo Piano, a sinistra e nella parte inferiore dell’inquadratura. Ha ricavato lo spazio per distendere un vasto foglio, una pagina della sua partitura, scostando qualcuna delle poltroncine destinate al pubblico, che letteralmente lo circondano, quasi un’onda di legno e tela che sembra sul punto di sommergerlo. Sul lato destro, in alto, un contrabbassista, una violoncellista e una violista stanno provando sulla pedana più bassa delle tre in cui si sviluppa il progetto di Piano, nato per “far cadere” la musica dall’alto. Progetto che peraltro non è il soggetto di questa fotografia, al di là della particolarità dello spazio che disegna. Altre immagini illustrano molto meglio l’unicità della creazione dell’architetto genovese, come quella che pubblichiamo qui sotto, realizzata probabilmente durante una delle prove aperte al pubblico che precedettero la prima assoluta del 25 settembre 1984.
Il soggetto della foto è semmai la solitudine dell’artista creatore, vissuta peraltro da Nono con una serenità piuttosto evidente nella postura e nello sguardo sul suo manoscritto. Scorre la musica dentro a uno spazio appositamente per essa creato: scorre nella lettura del musicista e intorno a lui nei pochi suoni prodotti da quel Trio d’archi, parte minuscola eppure significativa dell’“edificio” progettato dal compositore veneziano.
I documenti e le considerazioni sull’evento di quarant’anni fa si rincorrono particolarmente in questi giorni, perché il 29 gennaio è stato il centenario della nascita di Luigi Nono e perché in quest’occasione l’Archivio Storico della Biennale e l’Archivio fondato dalla moglie del compositore, Nuria Schoenberg, hanno riportato a Venezia quello che se non è di fatto il suo opus ultimum, per molti aspetti ha finito per essere considerato come tale.
Era il primo ritorno di questo Prometeo nel suo luogo di nascita, ma non è stato il recupero di una rarità del secondo Novecento. Perché questo lavoro, finora, non si può che considerare dentro al repertorio, se non in Italia, nel resto dell’Europa e specialmente in Germania. Unendo i dati reperibili su www.luiginono.it, il sito ufficiale dell’ Archivio dedicato al compositore veneziano (dati che si fermano al 2008), con quelli del sito specializzato www.operabase.com, emerge il fatto che l’opera nei suoi primi quarant’anni è stata proposta in 17 edizioni diverse spesso in più serate, da Parigi a Berlino, da Darmstadt – la culla artistica di Nono – a Praga, dal festival di Salisburgo a quello di Lucerna, da Madrid a Bruxelles. Ed è arrivato fino al Giappone. L’Italia è fanalino di coda: le recenti esecuzioni veneziane costituiscono la quarta produzione, dopo quella dell’esordio, quella realizzata nel 1985 in un capannone dell’Ansaldo di Milano e quella che è stata anche oggetto di registrazione discografica tenutasi nel 2017 al teatro Farnese di Parma. Poco rispetto alla frequenza delle apparizioni in molte capitali europee, almeno qualcosa rispetto ad altri effettivi “abbandoni” di certa musica non solo novecentesca. E comunque, il dato complessivo appare inoppugnabile: in generale il Prometeo, finora, è stato in media proposto ogni due anni a poco più.
In tutte queste esecuzioni, l’elemento che più aveva colpito il pubblico (e la critica) nell’84 e nell’85, appunto il geniale e costoso spazio ideato da Piano, è poi rimasto assente. Di recente si è letto che l’arca, smontata, giace nel magazzino di un Comune dell’hinterland milanese, e chissà per quale motivo è finita lì; e se e come viene usata. Ma appare evidente che quella realizzazione costitutiva un unicum non ripetibile: configurava una sorta di “installazione sonora” nata dalla sintonia con la quale Piano aveva interpretato il complesso e lungo lavoro di Nono, che da anni andava pensando questa musica.
Oggi, ricreare quella interazione fra spazio e suono ad uso contemporaneamente degli esecutori e degli ascoltatori appare non solo velleitario ma probabilmente anche fuorviante. E certo, entrare in San Lorenzo non per addentrarsi nella vera e propria “culla” lignea di Piano, ma per prendere posto sotto le impalcature e i praticabili dell’allestimento firmato da Antonello Pocetti e Filippo Viola (luci schematiche di Tommaso Zappon), disteso lungo le pareti di qua e di là del gruppo monumentale dell’altare, che divide lo spazio della chiesa in due zone regolari, è un’esperienza completamente diversa da quella di 40 anni fa. Ma aiuta – forse – a far cadere definitivamente l’idea, probabilmente cullata dallo stesso compositore, che questo lavoro configuri una diversa dimensione del teatro per musica. In realtà, per molti aspetti questa fluviale partitura (2 ore e 15 minuti senza interruzioni) è agli antipodi della drammaturgia musicale comunemente intesa, nonostante promani da uno dei più noti miti della tragedia greca.
In realtà, nel Prometeo – “trapuntato” dai frammenti testuali in italiano, tedesco e greco antico che Massimo Cacciari ricavò da autori plurimi (compresi Eschilo e Walter Benjamin, Esiodo e Hölderlin) – Nono delinea un universo parallelo del suono, realizza un viaggio interstellare alla ricerca di “altri pensari musicali, altri spazi infiniti”, come scriveva nell’84 citando Giordano Bruno. Insegue un problematico rovesciamento filosofico, storico, estetico e perfino fisiologico rispetto alla natura e allo scopo dell’ascolto.
Esagerava Mario Bortolotto nella recensione alla prima assoluta (“L’Europeo”, 13 ottobre 1984, ora in Il viandante musicale, Adelphi, 2018 ) quando parlava di “adorazione del Nulla”, ma a quarant’anni di distanza questo lavoro risuona come una poetica testimonianza d’epoca di una crisi che ben presto si è dimostrata irreversibile. E risulta intrigante proprio per la sua forza per così dire “testimoniale”. Che non riguarda la militanza politica al tramonto del “compagno Luigi Nono”, che a partire dai primi anni Ottanta aveva compiuto una decisiva virata verso la creatività non politicamente connotata, ma una ricerca musicale ormai giunta alla quasi definitiva astrazione. Si “contempla”, ascoltando questa musica, una rarefazione che sembra prediligere il quasi inudibile, solo raramente addensata in grumi drammatici; si è chiamati a misurarsi con un linguaggio di libertà e difficoltà paritetiche: spesso effetto senza causa oltre il rigore estetico ed etico del compositore. Una sfida a chi ascolta, nella quale il proclamato ritorno alle origini (musica “spazializzata” a Venezia nel ‘500, musica antica delle sinagoghe, teorie rinascimentali) e la ricerca (micro-intervalli, quarti di tono, elettronica in tempo reale nella creazione e diffusione dei suoni) consentono momenti anche fascinosi, ma rinchiusi in un’ardua quanto astratta dimensione speculativa. Per tutti questi motivi, il sottotitolo del Prometeo, “Tragedia dell’ascolto”, appare oggi non solo una raffinata sottigliezza semantica ed estetica in cui la musica incrocia la filosofia e la letteratura, ma anche una sintomatica premonizione. Perché l’ascolto a cui pensava Luigi Nono e che perseguiva con dedizione assoluta, sarebbe rimasto un’utopia, come gli ultimi 40 anni nella musica classica contemporanea si sono incaricati di dimostrare.
La realizzazione di questa complessa partitura, basata sull’edizione definitiva pubblicata da Ricordi nel 2017, è stata guidata da Marco Angius – specialista di Nono e della musica del nostro tempo: sua la citata edizione del 2017 al Farnese – alla testa dell’Orchestra di Padova e del Veneto (secondo direttore il compositore Filippo Perocco). L’hanno “nobilitata” vari protagonisti della prima assoluta dell’84: Roberto Fabbriciani ai flauti, Giancarlo Schiaffini alla tuba, Alvise Vidolin all’elettronica. Esecuzione impegnata e coerente, talvolta un po’ sbilanciata in dinamiche aggressive, comunque di notevole risalto sia sul piano strumentale che su quello vocale. A delineare una carica espressiva (questo aggettivo bandito dalla Seconda Avanguardia e al quale in fondo Nono non rinunciò mai) apparsa coinvolgente specialmente in Hölderlin, drammatica rivisitazione dello Schicksalslied. Al notevole risalto strumentale hanno collaborato al meglio, oltre ai citati “reduci” del 1984, Roberta Gottardi ai clarinetti, il violista Carlo Lazari, il violoncellista Michele Marco Rossi, il contrabbassista Emiliano Amadori. La fondamentale scrittura per le voci è stata risolta con notevole efficacia dall’ottimo coro del Friuli-Venezia Giulia istruito da Cristiano Dell’Oste e da un gruppo di impegnati e concentrati solisti, costituito dai soprani Livia Rado e Rosaria Angotti, dai contralti Chiara Osella e Katarzyna Otczyk, dal tenore Marco Rencinai e dalle voci recitanti di Sofia Pozdniakova e Jacopo Giacomoni. I live electronics sono stati realizzati dal Centro di Sonologia computazionale dell’Università di Padova.
Alla prima delle quattro esecuzioni in calendario dal 26 al 29 gennaio, pubblico compreso e applausi un po’ di circostanza. Quella sera del 25 settembre 1984 a chi scrive le accoglienze erano sembrate “affettuose e partecipi”. I tempi cambiano e con essi muta l’atteggiamento del pubblico, ma Prometeo non cessa di sfidare gli dèi della musica.