Ogni ascolto del mozartiano Requiem costituisce un’esperienza emotiva e intellettuale pressoché unica.
Se poi a (ri)proporlo è un complesso della levatura di Orchestra e Coro musicAeterna, per la direzione del fuoriclasse Teodor Currentzis, ecco che la circostanza si trasforma in un evento di rilievo, una vera e propria full immersion dell’anima. Ed quanto è accaduto la sera del 16 marzo 2024, a Torino – nel bel mezzo della Quaresima, dunque in sintonia con i tempi liturgici e fa piacere rimarcarlo – per la stagione dei Concerti di Lingotto Musica, presso l’Auditorium “G. Agnelli” di via Nizza progettato da Renzo Piano.
Currentzis è direttore acclamato (e talora discusso), sicuramente una personalità di spessore, a tratti provocatorio, ma con intelligenza, capace di coinvolgere il pubblico e innescare innegabili emozioni anche laddove non si condivide in toto certe sue scelte stilistico-espressive. Currentzis ha fatto precedere il sublime Requiem dalla fantasmatica e inquietante Mauerische Trauermusik K 477 (Marcia Funebre massonica), una pagina che dà i brividi ad ascoltarla con animo sgombro da pregiudizi, entro la quale egli ha inserito il coro (ad libitum) ad eseguire il cantus firmus sotteso al lavoro. Con innegabile effetto e presa emotiva sul pubblico. Effetto poi acuito dallo spegnersi totale delle luci e dall’esecuzione di una scheggia gregoriana a propiziare il Requiem medesimo: dunque niente applausi frapposti ed una sorta di incoativa continuità. Apprezzabile e, per l’appunto, suggestivo in senso direi addirittura etimologico.
Del Requiem Currentzis dà una lettura molto personale, trascinante, giocando abilmente sui contrasti di luci ed ombre. E allora, potendo contare su una compagine di alto livello in tutte le sue sezioni (gli ottimi archi e i fiati quasi immacolati) e, più ancora potendo avvalersi di un coro duttile e allenato (peccato per la dizione non corretta), una macchina perfettamente oliata in grado di affrontare – per dire – a velocità spericolata la vasta fuga sul Kyrie, ecco che ne sono emersi tratti davvero ‘spettacolari’ se ci possiamo permettere tale definizione per una Messa funebre. Per dire, che choc emotivo il contrasto tra le atmosfere soffuse e incoative dell’iniziale Requiem aeternam rispetto al già citato Kyrie. Nel quale si è ammirato non solo lo stacco del tempo, ma soprattutto la nitidezza delle polifonie, la perfezione assoluta dei fraseggi, la chiarezza insomma, sì da far apparire l’interpretazione una lezione di stile. Quante emozioni nella mimesi del pulsare del cuore del penitente nelle ultime misure del Confutatis dove settime diminuite si trasformano in chiesastici accordi, prima del commovente Lacrimosa.
O ancora verrebbe da sottolineare il pathos dell’attacco del Confutatis come pure l’altisonante incedere del Rex Tremendae. Currentzis poi è riuscito a far apparire quasi sullo stesso piano della scrittura di Mozart quanto concepito dal mediocre Süssmayr, e allora la frettolosa fuga su Hosanna o il meccanismo polifonico di Quam olim e altro ancora, attenuando, per dire, quanto di retorico e convenzionale vi è nel Sanctus. La riapparizione di ciò che si era già ascoltato in precedenza nel conclusivo Lux aeterna provoca sempre emozioni indicibili. e Currentzis, giocando su dinamiche, fraseggi e agogica, ha molto enfatizzato il tutto. Un poco disomogenee le voci soliste: bene il tenore Egor Semenkov e il basso Alexey Tikhomirov, un po’ troppo ‘vibrato’ da parte del controtenore Andrey Nemzer e qualche eccessiva intemperanza, un poco aspro il pur valido soprano Elizaveta Sveshnikova.
Tutti col fiato sospeso in chiusura, salvo l’immancabile imbecille che fa partire l’applauso quando l’ultima nota non si è ancora spenta, seguito da un manipolo di imbecilli suoi pari. Ma Currentzis, da consumato uomo di spettacolo, non si è fatto intimidire restando con la mano sospesa e riuscendo a ‘zittire’ il manipolo di cui sopra: salvo concedere il catartico e meritato applauso finale. Al termine di una serata a suo modo memorabile
Non basta. Nella prima parte della medesima serata si è ascoltato altresì il già pre-romantico Concerto K 491 scritto nella cupa e cinerea tonalità di do minore, in assoluto il Concerto tastieristico mozartiano con il più vasto organico, dacché prevede flauto, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani (oltre agli archi), nella raffinata interpretazione di una strepitosa Olga Pashchenko al fortepiano. La sua tecnica è abbagliante e impeccabile, ha musicalità da vendere, senso della forma, appropriatezza di fraseggi, massima eleganza negli abbellimenti, ammirevole souplesse e molto altro ancora. Purtroppo, nonostante si sia ricorsi ad una garbata, soft, estremamente discreta (e di fatto inutile) amplificazione, il fortepiano in una sala da 1800 posti risultava spesso al limite dell’udibile (così in apertura del rarefatto e delicato Larghetto che la Pashchenko ha distillato con grande raffinatezza restituendone tutta la fragranza).
È pur vero che Currentzis, dopo un attacco icastico e vigoroso dell’Allegro iniziale ha poi ‘alleggerito’ oltremodo, laddove lo strumento solista iniziava a dialogare con la compagine orchestrale; ciò nonostante spesso la fitta tramatura dei giochi per l’appunto dialogici tra solista e orchestra già a metà sala finiva per perdersi, a detrimento di una corretta lettura dell’opera stessa, della quale è venuto un poco meno il complessivo impianto formale. Siamo alle solite; se s’ha da utilizzare (filologicamente) il fortepiano ben venga, ma allora l’organico dovrà esser proporzionato (Currentzis ha ecceduto un poco) e, soprattutto, occorre tenere conto che in una vasta e moderna sala qualcosa inevitabilmente si perde (e si disperde) ed è un vero peccato, dal momento che la Pashchenko è artista di alta levatura e notevolissima intelligenza, acuta, perspicace e sensibile, capace oltretutto di un apprezzabile range dinamico, per quanto lo strumento consenta. E lo ha mostrato a chiare lettere ad esempio nel mettere a fuoco stilisticamente e timbricamente le singole Variazioni di cui è sostanziato il Finale del K 491, e così pure nelle vaste e corpose cadenze prescelte. Non solo. La Pashchenko ha superato se stessa proponendo come primo bis il Concerto in re maggiore per strumento da tasto e archi del settecentesco Dmitrij Bortnjanskij e qui le cose sono andate meglio quanto ad equilibri fonici, poiché l’organico è appunto limitato ai soli archi: ne è emersa una pagina dai profili squisitamente rococò, ovvero galanti, simil-haydniana, gradevole, ancorché di limitata profondità prospettica.
Sedendo lei sola al fortepiano ha poi interpretato il vasto e talora garrulo Rondò alla ungherese quasi un capriccio in sol maggiore op. 129 di un Beethoven appena venticinquenne, offerto con molta scioltezza e ironia (ci ha perfino infilato due battute di Happy Birthday occhieggiando ad una delle orchestrali), confermandosi interprete di prima grandezza, raccogliendo vasti, unanimi e davvero meritati applausi, anche da parte di chi avrebbe forse preferito (ri)ascoltare l’ennesima interpretazione del capolavoro mozartiano al gran coda d’ordinanza. Merito della Pashchenko aver fatto comprendere che il fortepiano è strumento degno di essere apprezzato (e forse anche amato).