di Santi Calabrò
Da un regista come Antonio De Lucia non ci si aspettano le provocazioni, le attualizzazioni o le idee balzane proprie al “Teatro di regia” che imperversa, registrando più successi che proteste, nei palcoscenici europei di punta – da Berlino a Madrid, da Ginevra a Lione – e si estende spesso alle produzioni italiane (anche se da noi i “puristi” che si scandalizzano sono più numerosi e agguerriti che oltralpe).
Di contro, gli spettacoli affidati a De Lucia, non meno delle sue parole, mostrano una convinta distanza dall’estetica della riscrittura teatrale. Il regista, infatti, rivendica come sua consuetudine quella di accompagnare lo svolgimento della vicenda «senza sovrastrutture o sindromi creative, per permettere allo spettatore una visione libera e senza filtri … senza sentirsi chiamato a fare compiti in classe». Eppure, nella nuova produzione di Aida andata in scena a Messina, il segno registico di De Lucia approda a una lettura particolarmente connotata di un’opera molto complessa, al punto da presentarla in una luce estremamente unitaria. L’esito risulta così, paradossalmente, sia fedele che originale.
Naturalmente, i mezzi con cui De Lucia in questa occasione si distingue sono ben diversi da quelli dei suoi colleghi che amano le trovate eclatanti. La differenza più importante è di natura strutturale. Solitamente l’azione dei registi più innovativi si esercita sul “tempo”: il tempo storico in cui è ambientata la vicenda, spostato senza scrupoli filologici, e il tempo narrativo della drammaturgia, cui si sovrappongono controscene e persino rimescolamenti dell’intreccio consegnato dalla partitura e dal testo. A volte si arriva al recupero di elementi della fabula o della fonte letteraria per reinterpretare, o anche “solo” per rendere più eloquenti, le situazioni sceniche e il loro significato. Non è certo questo lo stile di De Lucia, che anche in questa nuova Aida lascia in pace il “tempo”; la messinscena messinese esercita invece sullo “spazio” un’organizzazione coerente che, mentre scorre quasi inavvertita, si rivela via via assolutamente ferrea.
Innanzitutto, i personaggi principali cantano quasi sempre sul proscenio, che a volte è isolato e fortemente limitato da un sontuoso sipario “egizio” (ispirato a quello zeffirelliano dell’Aida del 2001 a Busseto). Anche quando la scena si apre, i cantanti non abbandonano una posizione avanzata; quanto si vede dietro – il coro, i movimenti scenici parchi e misurati, le scene classicamente magnifiche di Riccardo Roggiani, le proiezioni sullo sfondo (bravo il video designer Matthias Schnabel, come anche il light designer Giuseppe Calabrò) – non entra mai in conflitto con il filo della narrazione, con i personaggi principali e con la loro anima in tumulto. Ai lati della scena due colonne istoriate delimitano lo spazio anteriore e lo collegano a quello che si apre alle spalle, e sono anche l’unico ed estremo appoggio prima per Aida, angosciata sin dall’inizio e nel corso dell’opera costretta ad adibire più di una volta l’una o l’altra colonna a muro del pianto, e poi per Amneris, non meno colpita dalla sorte.
Un’impostazione apparentemente così semplice interagisce, dal punto di vista della fruizione, proprio con i motivi che, come scrive Paolo Isotta in uno dei suoi esemplari saggi di esegesi verdiana, fanno di Aida un caso forse «unico nella storia: quello d’un’Opera dal linguaggio immensamente sofisticato alla quale sia toccata un’immensa popolarità». Sostenere una dicotomia popolare-sofisticato in Aida è in effetti tesi ben sviluppabile: i primi due atti contro gli ultimi due, la dimensione collettiva e quella individuale, l’ethos guerresco-patriottico, di piena e trascinante forza verdiana, e il linguaggio armonico che diffusamente, in parte già nella prima metà dell’opera ma molto più nella seconda, abbandona uno stampo tradizionale per aprirsi a effetti cangianti. Qui, in effetti, la dialettica tra accordi instabili e loro rientro in un alveo tonale regolare costituisce uno dei vertici della maestria tecnica di Verdi.
Sintonizzarsi su tutti gli aspetti in modo adeguato, per una piena fruizione dell’opera, innegabilmente riesce un po’ arduo nelle rappresentazioni di Aida in arene o altri immensi teatri all’aperto, adatti alla Marcia trionfale e a spettacolarizzare i movimenti delle scene di insieme, ma decisamente meno favorevoli quando il baricentro si sposta sulla dimensione privata della vicenda tragica. Per compensare, a volte Aida è stata proposta in teatri piccoli, così da apprezzarne meglio ombre, trapassi e sottigliezze, anche se ne soffre il lato spettacolare. Perdita accettabile di per sé, se non fosse che sminuire una parte di grandiosità, di solennità sacrale e di slancio patriottico-guerresco, in un grand-opéra di stampo sia classico che tragico come Aida, significa anche essere meno compartecipi delle immodificabili condizioni esterne che gravano come macigni sui protagonisti. Non è questo il caso della produzione di Messina, dove il palcoscenico ampio e le proiezioni consentono di trasmettere in modo più che incisivo la solennità, l’arcano, la patria e la religione. Inoltre, la lettura del direttore Carlo Palleschi lega tutti i fili dell’opera, esotismo incluso, in una cifra costantemente permeata da un empito tanto grandioso quanto patetico. Di certo, come per tutti i capolavori, non esiste l’interpretazione “definitiva”, ma va riconosciuto come De Lucia e Palleschi tengano desta la tensione dall’inizio alla fine, riservando una costante e primaria attenzione al versante più profondo del lavoro di Verdi, «all’Umano nella sua purezza, ossia quel Rein-menschliches che Wagner considerava il vertice della rappresentazione drammatica» (Isotta). Se Palleschi non è certo un direttore che cerchi in Aida il “camerismo”, ugualmente mette a tondo i personaggi mentre accende di fuoco verdiano l’intera opera, senza perdere per questo le nuances orchestrali delle parti liriche ma enfatizzando sempre i culmini verso cui converge la scrittura, persino quando si fa rarefatta e notturna.
L’Orchestra del Teatro Vittorio Emanuele risponde in modo apprezzabile, e superba è la prova del Coro Lirico “Cilea” diretto da Bruno Tirotta, messo in condizione di esprimersi al meglio dai pochi movimenti assegnati. A smuovere un quadro volutamente un po’ “oratoriale” provvedono le danze, di stampo classico, affidate all’efficace corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Odessa. Fra gli interpreti vocali, Sanja Anastasia (Amneris) è la più intensa, se non la più precisa, arrivando a meritarsi nella penultima scena un anticipo delle ovazioni che alla fine sono state indirizzate all’intera compagnia. Anche scenicamente, Anastasia esprime benissimo il furore e poi il dolore di Amneris; meno appropriata, nella prima parte dell’opera, qualche movenza da ragazza infatuata di fronte a Radamès. Oksana Dika (Aida) mette subito in campo le risorse di una tecnica controllatissima e di una imponente proiezione della voce, rendendo giustizia progressivamente anche ai lati più espressivi. In crescendo anche la prova di Walter Fraccaro (Radamès), che non appare memorabile in «Celeste Aida», ma per il resto esprime un equilibrio convincente tra le esigenze vocali del registro, quelle musicali della tornitura delle frasi e quelle delle situazioni drammaturgiche. Giuseppe Altomare è un Amonastro di classe e Dario Russo un potente Ramfis. Paolo Pecchioli (Re d’Egitto), Davide Scigliano (efficacissimo nel ruolo limitato ma cruciale del Messaggero) e Oleksandra Chaikovska (Sacerdotessa) completano ottimamente il cast.
Al pubblico di Messina è riservata un’emozione particolare nell’ultima scena, quando viene proiettata l’immagine del Teatro Vittorio Emanuele ancora in piedi (ancorché danneggiato), in mezzo alle rovine degli edifici vicini, dopo il terremoto che colpì la città all’alba del 28 dicembre 1908. La sera del 27 dicembre, poche ore prima, era stata rappresentata proprio Aida. Ancora Aida fu la prima opera a essere proposta (nel gennaio del 1986) nella storia recente del Teatro Vittorio Emanuele, dopo la riapertura, nel 1985, con un concerto sinfonico affidato alla direzione di Giuseppe Sinopoli. Di tutte queste vicende si dà conto nel libretto stampato per la nuova produzione, arricchito anche dal pregevole contributo di uno studioso, Antonio Baglio, che illustra ad ampio respiro la storia di Messina in relazione alla tragica cesura del 1908.