di Giampiero Cane
Bologna è un grosso borgo d’impianto romano, naturalmente evolutosi un poco nel tempo, che sembra oggi indirizzato alla ricerca della propria possibile omogeneità al livello più basso possibile. Anche se non ha molte probabilità di superare la Capitale qual è oggi, insomma ci prova, ma più per scemenza che con intelligenza criminale. Anche se non pare poter raggiungere in un futuro vicino lo sfascio di Roma, sporcizia, puzza e delinquenza la fanno da padroni in una realtà che un mezzo secolo fa ancora stentava assai a produrre notizie di “nera” e il Carlino, il foglio locale poi fusosi e trasformatosi un poco, ancora ai tempi in cui ne reggeva le redini Spadolini pare soffrisse del fatto che suoi redattori attendessero inutilmente le 23 o la mezzanotte per “chiudere”, sperando che un qualche scaldaletto sadico desse una botta di adrenalina a giornalisti che soggiornavano chiacchierando in attesa di andare a cena da Rodrigo, dove si sarebbero incontrati, cosa che accadeva spesso, con qualcuno del’Avvenire, l’altro giornale stampato in città, la voce dell’autorità religiosa spesso gauchista un po’ più del giornale della confagricoltura liberale.
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Dopo gli anni Cinquanta, per qualche lustro qualcosa ha retto ancora, poi, più o meno dagli Ottanta è stato un continuo franare che ha coinvolto tutto, dalla politica all’amministrazione, l’università, il vivere quotidiano, fino all’oggi, quando l’inno accademico sembra essere diventato il coretto “dottore, dottore del buco del cul, va a fan cul” ripetuto ad libidinem, che è un po’ pentastellato, ma forse il segno più evidente del ruolo che ha avuto nella città il dams (dipartimento di arti musica e spettacolo qui nato), seguito a qualche anno di distanza dall’invenzione dei t-days (dove t sta forse per tortellini o per torri o per tette o per quel che vi pare) giornate nelle quali la città, il suo centro che già era stato dei cittadini e del voluttuoso, concupiscente struscio, è stato consegnato al vagabondaggio indeterminato, balordo, realizzando una specie di weekend del villaggio, che finora fortunatamente non prevede alcun ruolo per quadrupedi caprini, ma capre bipedi vagabonde sparse o addensate qua e là, che tutte sembrano ricordare per questo o quel dettaglio il blando sindaco di quest’abisso, Virginio Merola (anagramma Malore), nella tarda stagione del 2016 e, poi, nell’anno successivo, tra una scemenza e l’altra, da sé candidatosi a “dottore del buco del cul”, disonoris causa per efferatezza di pensiero applicato alla musica e, aggiungeremmo, anche non. La lectio magistralis verté sul tema “La musica dev’essere libera”; il discorso ripeté l’assunto e quindi esplose il coro festante mentre rotoli di carta igienica venivano lanciati a imitazione di quelli carnevaleschi, multicolori.
Eppure questa città aveva avuto Renato Zangheri, prima assessore alla cultura, quindi sindaco; da un’apertura della maggior torre era comparso Carmelo Bene alla Madonna e a leggere Dante; l’assito del teatro Comunale era stato calcato, pede libero da Don Cherry, percorso dai membri del Living Theatre; il podio aveva ospitato Celibidache, Maderna e Boulez. Ora, tra un’asse e l’altra spuntava un po’ di verde, così caro al belar delle capre. Nella seconda settimana di gennaio il Comunale ha messo in scena la più triste e risibile rappresentazione che si sia pensata per un’opera di Mozart, Il Ratto dal Serraglio che, se un capolavoro forse non è, ha alcune pagine di musica sublime. Quello che sono riusciti a farne è stato semplicemente uno scempio, uno spettacolo tanto miserello che Totò Sceicco al confronto si sarebbe dovuto dire geniale. I personaggi caduti in servitù dei turchi, che sono Kostanze, Blonde e Pedrillo, poi anche Belmonte, sembrano entrati sulla scena del Comunale, sabbia, colline e una tenda, direttamente da piazza Verdi, luogo di riunione dello sgangherume casinaro cittadino, un miscuglio di studenti avventizi ancora allo sbando e di spacciatori, cavallo dei pantaloni al ginocchio e braghe stracciate quanto basta. I personaggi dell’opera mozartiana vagano per il loro deserto con bottiglie di plastica da un litro e mezzo, si sdraiano per terra come gli abituali della piazza. Naturalmente non c’è nessun harem, o serraglio. I turchi paiono allievi di una scuola elementare di guerra, per ora sanno solo prendere la mira e questo fanno anche quando non serve a nulla. Il loro capo, Osmin, sembra proprio l’Arnoldo Foa del film, impazzito per Antinea, scemo come lui, ma senza furori d’integralismi che, è ovvio, nel libretto non ci sono.
Il problema è che non puoi cambiare un salotto e le sue smancerie con la turpitudine dei bruti, se non modifichi sostanzialmente il testo. Oppure, se lo fai, devi fare in modo che l’involontaria comicità diventi uno strumento del tuo progetto.
Il musicologo avventizio Virginio Merola non s’è accorto di ciò, lui ha per certo sol che la musica dev’essere libera, ma non saprei proprio se conosca anche solo per nome Ornette Coleman (il quale invece sa che la libertà della musica da lui suonata è il sacrificio di quella che ha scritto, cioè del materiale cui si sta applicando: non è semplicissimo, lo sappiamo, ma se n’è occupato Massimo Donà scrivendo di un dialogo tra Coleman e Derrida intitolato Musica senza alfabeti (Mimesis, 2°16). Esagero chiedendo a un sindaco di rifiutare d’impegnarsi in campi che affatto ignora? La politica gli chiederebbe di starci, ma lo obbligherebbe, se non studia, a figuracce forse un po’ peggio di quelle che comunque fa. L’aspetto imperdonabile di questa produzione de Ratto dal Serraglio (per fare gli stupidi si potevano liberare veri ratti, cioè topi, nel palcoscenico raffigurante l’harem e indirizzarli a scendere in platea. Sarebbe stato un vero spassoso terrore, non il prologo alla commedia allestito facendo controllare gli ingressi da militari armati e dai detector. Ovvio che la cosa non solo non sia stata fatta, ma nemmeno ipotizzata. Nel teatro d’opera bolognese non c’è intelligenza, né humour. I frutti sono una dilagante borsite.
Se bisogna riconoscere che quest’anno c’è un po’ di pubblico nuovo, anzi abbastanza o molto, bisogna attendere per stabilire se accada per la “svendita” al botteghino o per una ventata d’imponderabile. Questo Ratto è stato proprio un torto al teatro e, se volete a Mozart e al suo librettista occasionale. C’è da restare stupiti che sia arrivato sulla scena. Il Comunale era co-produttore con Aix-en-Provence. Lì lo spettacolo è stato visto e lì andava cassato. Che si buttino via dei denari non va benissimo, ma che si debbano spendere per i capricci di un qualche politico supportato da musicisti di partito, portando alle capre i prodotti a pallini della capre stesse è inutile masochismo. Tanto il belare non diventerà mai pensiero.
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