Il Singspiel di Mozart (Il ratto dal serraglio) ha inaugurato la stagione del Teatro Comunale: uno spettacolo privo dell’attesa audacia teatrale e con una lettura musicale modesta
di Francesco Lora
Nelle intenzioni di chi l’ha apparecchiato doveva essere uno spettacolo con sfida, botto, brivido, dibattito e scandalo, utile a spostare l’attenzione del pubblico internazionale sul Teatro Comunale di Bologna e sull’inaugurazione della sua stagione d’opera 2017. Ma lo spirito dell’inaugurazione, con i grandi interpreti e il pubblico che conta, era già stato accaparrato dal lussuoso Werther di dicembre; e la prima recita, il 20 gennaio, ha dovuto vedersela con la carrellata di eventi sovrapposti nella stessa data in giro per l’Italia, prepotenti nello sparpagliare altrove l’uditorio d’avanguardia: il ritorno di Riccardo Muti al Teatro alla Scala, nonché i debutti del Faust a Firenze, del Falstaff a Genova e del Tannhäuser a Venezia. Quand’anche non vi fosse stata questa concorrenza, l’Entführung aus dem Serail di Mozart qui in oggetto sarebbe peraltro rimasta un topolino partorito dalla montagna. Molto clamore è stato preparato circa l’allestimento con regìa di Martin Kušej, scene di Annette Murschetz, costumi di Heide Kastler e luci di Reinhard Traub: uno spettacolo proveniente dal Festival di Aix-en-Provence, destinato alla ripresa in quello di Brema e finora edulcorato in séguito ai recenti attentati terroristici in Francia.
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Nei materiali del teatro si legge, per esempio, che il Singspiel mozartiano
viene ora proposto collocando la vicenda in un Oriente vicino a noi per epoca e ambientazione, trasformando il palcoscenico in una landa desertica, con tanto di dune di sabbia e tende berbere, sulla quale si svolgono le contrastate vicende tra le due coppie di amanti protagoniste e i loro antagonisti, leggibili anche come metafora dei contrasti tra Occidente e Oriente. I dialoghi, riscritti dal drammaturgo Albert Ostermaier, trasportano l’azione negli anni ’20 del Novecento (gli anni di Lawrence d’Arabia e del tardo colonialismo europeo), quando le potenze occidentali – con in testa l’Inghilterra – fecero del Medio Oriente il territorio dell’estrazione del petrolio, della ricchezza, del potere, con il pretesto della lotta contro gli ottomani alleati con i tedeschi, suscitando nelle popolazioni un risentimento profondo, di cui l’Isis è il prodotto finale di oggi. Lo spettacolo muove quindi una profonda riflessione storico-politica e le scene generano forse ancora di più un forte impatto visivo ed emotivo nel pubblico per l’inevitabile associazione con le immagini di cronaca che ogni giorno scorrono davanti agli occhi di tutti.
Prima del debutto, hanno aggiunto pepe l’organizzazione dell’incontro “Con Mozart, tra Islam e Occidente”, il dichiarato proposito registico di ripristinare quanto censurato ad Aix, la porta sbattuta dal tenore turco Mert Süngü in aperto disaccordo con Kušej, la tacita scomparsa dell’accattivante primadonna Maria Grazia Schiavo dalla locandina e le forze armate schierate davanti al teatro con perquisizione del pubblico all’ingresso. Tanta mobilitazione cos’ha introdotto? Una riscrittura testuale con infiniti dialoghi in tedesco, dispersivi e sciatti per contenuto e forma, lontani dal dar luogo a discussione e incomprensibili alla maggior parte del pubblico; la falsificazione del brillante carattere dell’opera, con i dialoghi incoerentemente tenuti in bilico tra terrore e humour, e con la musica – ineludibile – a testimoniare in senso opposto la passione viennese per il festoso sferragliare di bande ottomane; una scenotecnica che fa sprofondare nell’imbarazzo, specie quando le ombre degli attori battono sul fondale dipinto con il quale si vorrebbe evocare l’infinito desertico; la mortificazione del coro, relegato nella buca d’orchestra come sgradita incombenza sonora anziché essere esibito in palcoscenico come vivo arto dell’istituzione teatrale; in ultima istanza, la geniale noia di un pubblico diradato, distratto, interessato più a guadagnare presto l’uscita che a perdere tempo in fischi.
A ciò si è aggiunta una compagnia di canto atta più ad assicurare sottomessa accondiscendenza al regista che a garantire il necessario e disinvolto virtuosismo vocale. Cornelia Götz come Konstanze, Julia Bauer come Blonde, Bernard Berchtold come Belmonte e Johannes Chum come Pedrillo hanno condiviso o suddiviso le magre doti di emissioni vetrose o fibrose, registro acuto affaticato o stiracchiato, registro centro-grave torbido o inconsistente, intonazione volonterosa ma prostrata da una scrittura esigente. Sopra di loro si è distinto il solo Mika Kares, basso di più cospicua caratura e Osmin opportunamente torvo e minaccioso, mentre la parte soltanto recitata di Selim spettava al poco risonante Karl-Heinz Macek, che già l’aveva sostenuta nel 2010 al Maggio Musicale Fiorentino. Quanto alla concertazione, il direttore Nikolaj Znaider conosce bene l’orchestra del Comunale ma senza aggiudicarsene la cieca complicità: ne è venuta una lettura tutta giocata in difesa, allentata nei tempi e fiacca nell’incedere, con un alone di legatissima e polverosa archeofonia davvero non più recepibile negli anni delle esecuzioni storicamente informate e delle compagini con strumenti originali.
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Non so a quale replica Lora abbia assistito. L’unica nella quale i fischi e i buuh sonon stati contenuti è stata la “prima” nella quale tradizionalmente il pubblico è più interessato a “mirare e essere mirato” che ad ascoltare l’opera. Ha ragione Cane quando parla di uno scempio vergognoso in cui è mancata la provocazione ma in compenso l’ha fatta da padrone la noia. Queste regie andrebbero valutate per quelle che sono: il frutto malato di un decerebrato. L’ennesima prova negativa di un teatro inesorabilmente avviato a un inarrestabile declino