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Per l’apertura di stagione del Teatro dell’Opera di Timişoara, nel 65° anniversario della fondazione, è andato in scena in un nuovo allestimento il celebre lavoro di Charles Gounod, vero protagonista il Mefistofele crudele ed elegante di Roberto Scandiuzzi
di Elena Filini
T itolo non così rappresentato nelle ultime stagioni, se si eccettua la produzione di Des McAnuff al Met di New York del 2011 (e la prossima ripresa nell’aprile 2013), Faust è stato dato venerdì 10 ottobre sulle scene del Teatro dell’Opera (Opera Nationala Romana) di Timisoara per l’apertura di stagione ed in conclusione degli eventi per il 65° anno di fondazione. Rispetto alla produzione di dodici anni fa, l’ultima in cartellone nella città rumena, l’attuale direttore principale, il marchigiano David Crescenzi, ha aperto – di concerto con il regista – una serie di recitativi e ripristinato il coro «Déposons les armes. Gloire Immortelle». Le successive modifiche, con la soppressione del primo quadro nel IV atto e l’inversione della scena dei soldati e quella della chiesa, possono ormai essere considerate dei classici. Unico peccato, giustificabile da ciò che segue, il taglio della seconda aria di Marguerite («Il ne revient pas…»). Perché l’opera, ça va sans dire, va in scena con i balletti, e cioè nella versione 1869. E proprio il sontuoso stravolgimento dei canoni classici della danza attuati da Razvan Mazilu è uno degli aspetti più intriganti di questa produzione, che non lesina masse corali, danzatori, figuranti e clangore di scene e costumi.
Il regista Mario De Carlo si immerge in un Medio Evo decisamente goethiano, dove le forze che si affrontano sono il nero di Mefistofele ed il bianco di Marguerite, ovvero perdizione versus santità. C’è una dicotomia nettissima tra queste due forze, tra la dimensione della luce e dell’emerso e la dimensione ctonia, scura, distorta, che senza dubbio De Carlo pare preferire. Al centro della scena non sta il lirico Faust del valido tenore cinese Like Xing ma il sardonico Mefistofele di Roberto Scandiuzzi, un vilain esteta che ammanta di eleganza una compiaciuta crudeltà. Il basso trevigiano, reduce dal Faust scaligero del 2010 con la regia di Eimuntas Nekrosius, sembra qui ad agio perfetto in una regia tradizionale, decorativa e sontuosa, di forte impatto estetico. La sua allure scenica è soggiogante proprio perché misurata, impostata su una pronuncia di straordinario valore attoriale. Benché Scandiuzzi distribuisca con calcolato mestiere (attento a non prendere inutili rischi in acuto) una voce che nei cantabili ha pasta da autentico fuoriclasse, il suo peso vocale rischia lo stesso di creare qualche disequilibrio rispetto alla coppia di amanti, interpreti di grana squisitamente lirico-leggera. Ma è giusto che s’imponga –sembra ammonirci la regia – perché è Mefistofele il demone ex-machina, la voce fatale di tutte le perdizioni e le arroganze umane. A lui dunque il centro della scena. In linea con questa visione, o per dare una nuova apertura di profondità a Gounod, De Carlo ne dismette consapevolmente gli aspetti più comici a favore di una sottile perfidia che si trasforma, nel IV atto, in blasfema crudeltà.
Ridotto così il margine di azione di Faust, l’opposizione spetta tutta a Marguerite. De Carlo ne fa una tutto sommato classica femme perdue che tuttavia, sedotta e presto abbandonata, vive una consapevole e dolorosissima discesa agli abissi della follia, vissuta come necessaria espiazione. Dopo esperienze importanti tra cui Beatrice di Tenda alla Scala, il soprano Nicoleta Ardelean si presenta al debutto nel ruolo che, se fu appannaggio di Caroline Miolan Carvalho (soprano lirico leggero per antonomasia dell’Ottocento francese), finì poi per essere assunto in prevalenza da soprani lirici. Il suo impianto vocale è lirico leggero, ma la volontà di trovare accenti di maggiore spessore drammatico la porta ad irrigidire a tratti la zona acuta, dimentica di quegli abbandoni più propriamente lirici che sono la caratteristica dominante del ruolo (come non ricordare Mirella Freni nella registrazione del 1978 con Domingo e Ghiaurov?). La sua prova è positiva; proprio per questo il consiglio è di non voler forzare i tempi in un repertorio più pesante dell’attuale.
Like Xing è un tenore cinese di trent’anni che, al suo debutto ufficiale in un ruolo di tale impegno, già può dar prova di una sicurezza musicale straordinaria e di un’ottima tenuta vocale. La grana è, e si presume per ora rimarrà, quella del lirico leggero, con una propensione naturale alla cantabilità. Il suo momento più emozionante è l’aria «Salut demeure chaste et pure», giustamente accolta da un caloroso consenso. Molto apprezzata nel repertorio verdiano e da alcuni anni nei maggiori titoli pucciniani, l’Orchestra dell’Opera Nationala Romana di Timişoara è senza dubbio ai primi approcci con il repertorio francese, di cui ancora deve scandagliare in profondità le finezze liriche e la mobilità del tactus. Tuttavia, in particolare nella generale dell’8 ottobre più che nel debutto del 10, la lettura di David Crescenzi trovava accenti di buon interesse. Il coro, in questa versione, ha un ruolo di non secondario peso. Alternava momenti di vero clangore (gli interventi maschili del Veau d’or) ad una serie di evitabili pasticci ritmici e d’intonazione. Tra i ruoli di utilité si sottolinea l’interessantissima prova del mezzosoprano Ramona Zaharia, avvenente (per una volta) Marthe di timbro scuro e rotondo. Spettacolo smart e di solida concezione per un tutto esaurito che par voler ripagare gli enormi sforzi del sovrintendente e direttore artistico Corneliu Murgu per allineare le produzioni dell’opera agli standard del resto d’Europa. La ricetta può forse essere mutuata: forza lavoro ed entusiasmo in loco con competenze e mestiere italiano.
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