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Opera • Trionfo al Teatro Comunale per la grande belcantista al debutto nella parte della sacerdotessa belliniana. Degne di lode le prove degli altri interpreti e la concertazione di Michele Mariotti, inerte la regia di Federico Tiezzi
di Francesco Lora
S ubito al dunque: Mariella Devia ha debuttato come Norma, al Teatro Comunale di Bologna (13-21 aprile); melomani nel panico per strenua caccia al biglietto introvabile (loggionisti in fila dall’una di notte, con giochi da tavolo e vivande condivise). L’evento risuonava, già con settimane di anticipo, da un forum all’altro: la Norma di Bellini è opera da far tremare i polsi alla primadonna; la Devia, personificazione stessa del belcanto romantico e santa patrona dei veri cultori, la quale regala questo nuovo esordio festeggiando la sua sessantacinquesima primavera, come si sarebbe inserita nella tradizione esecutiva della parte protagonistica? È presto detto, nel solito sbalordimento di conferme e sorprese. Il registro acuto, di siderale purezza e vibrazione, è quello noto: un paradigma tecnico sul quale si ha pudore a soffermarsi ancora, e che ogni giorno pare tuttavia crescere in corpo e incisività. Il soprano, piuttosto, era atteso al varco sul registro centro-grave, e sulla realizzazione del profilo drammatico del personaggio.
La difficoltà della parte consiste, semplicemente, nel richiedere all’interprete ogni possibile risorsa virtuosistica, cantabile o espressiva, anche in nome di una contraddizione all’origine di tutto: nel comporla in musica, Bellini aveva di certo in mente le qualità della prima interprete, Giuditta Pasta, attrice di neoclassica compostezza e cantante avvezza – secondo l’uso della scuola italiana più matura: così anche la Colbran e la Malibran – a salire e scendere in ogni registro, dal soprano al contralto, esibendo come un pregio la convivenza di due voci in una (per chi voglia approfondire l’argomento, un libro recente fa luce intorno al vero storico: Marco Beghelli – Raffaele Talmelli, Ermafrodite armoniche. Il contralto nell’Ottocento, Varese, Zecchini, 2011, prezzo abbordabile). Ma anche la Pasta faticò a mettersi in gola l’eroina belliniana, ormai composta non più ad personam (come avrebbe fatto Rossini) ma pensando al mercato editoriale frattanto reinventato e al diritto d’autore frattanto riconosciuto; pensando, cioè, a una protagonista reale ibridata con una ideale, e dunque a un prodigio vocale inesistente, difficile da inquadrare, dove la tradizione ha isolato priorità e ne ha fatto dogmi, ma dove il testo in quanto tale, libretto e partitura, in realtà moltiplica e nel contempo sfuma le richieste.
Ebbene: nel registro centro-grave la Devia non solo canta sempre, solida e sonora, ma anche confessa una velatura timbrica inedita, rosata e carnale, che non macchia il suo cristallo ma dà sostanza e personalità alla sua Norma. Una Norma che, in quanto personaggio, è una riscoperta: negli occhi della sacerdotessa di Irminsul, Adalgisa vede – è vero – una «celeste austerità» che incute soggezione (I, viii); ma nella Norma della Devia questa è solo la maschera di una donna che – tanto fulgida nelle cerimonie quanto sfiorita tra le mura domestiche – ha ceduto all’amore, che si è barricata nell’inganno e che a ogni passo fa i conti con la propria coscienza. Una Norma che dunque carica i recitativi di giusto accento e con splendida dizione, ma che non pretende di essere coturnata – chi lo è stata, dopo la Callas? – e si lacera piuttosto in esitazioni, rimorsi e sfoghi. Una Norma che accosta un «Casta diva» davvero argenteo, estatico, alitato con fiati infiniti su un tempo dilatato all’estremo, a un «Ah bello, a me ritorna» d’oro massiccio, cantato con tono impositivo e replicato con variazioni da capogiro, diverse da quelle della tradizione e ancor più ardite e autorevoli. Una Norma che nei duetti con Adalgisa si è davvero spogliata della «celeste austerità» e cerca di rubare e rivivere, nei racconti e nei ricordi, un barlume di giovinezza della novizia: ridotto talora al più flebile pianissimo ed estenuato nel legato, il canto della donna più anziana pare un’eco di quello della più giovane. Una Norma, infine, che nel duetto con Pollione licenzia il capolavoro interpretativo: in una tessitura che, nelle prime battute, è contraltile senza meno, la Devia sussurra, insinua, tenta di sedurre Pollione unendo minaccia, disperazione ed esasperazione, recitando forse non con genio, ma con una dedizione e uno studio che oggi non ha pari. Dopo la Callas e la Scotto, e fin dal debutto, è la Norma più variopinta d’affetti – oltre che una delle tre meglio cantate: insieme con lei candidiamo, in virtù di risorse vocali ben diverse, la Dragoni e la Theodossiou – degli ultimi trent’anni.

Accanto alla primadonna, lo spettacolo bolognese ha il pregio di schierare un’Adalgisa di rango, e assortita in modo ideale con il canto e la lezione della Devia: rispetto a quest’ultima, Carmela Remigio si differenzia e amalgama fin dal primo suono e gesto, con timbro che evoca una giovinezza immacolata fino all’ingenuità, con una linea vocale meno affilata e astrale e più plastica e lirica, e con un gioco scenico sempre dinamico e volutamente contrastante con quello, più contegnoso, della protagonista. Si tratta, inoltre, di un’Adalgisa giustamente ricondotta al registro sopranile o, meglio, allo stesso calibro vocale della Norma in vigore nel singolo spettacolo: nella vexata quaestio vociologica, il punto non è tanto nel pendere tra un’Adalgisa soprano o mezzosoprano, quanto nel fatto che le due parti, entrambe ibride tra registri, gravitano su tessiture affini, e soprattutto in vista dei duetti non dovrebbero essere cercate agli antipodi. Ammirazione merita anche Aquiles Machado come Pollione: nome di punta nel panorama tenorile di un decennio fa, poi incorso in una spiacevole crisi vocale, egli soffre ora di un canto fratturato nel passaggio da un registro all’altro, e nel brunire il timbro e nel porgere la frase domingheggia scopertamente; vicino alla Devia e alla Remigio, il Pollione di riferimento avrebbe potuto essere un Gregory Kunde, un Francesco Meli o un John Osborn: pure, Machado non ce li fa troppo rimpiangere, tanta è la volontà di seguitare i due soprani nella ricerca della sfumatura vocale – raramente il personaggio ha goduto di tante mezzevoci – e del giusto portamento scenico.
Meno interessante è la prova di Sergey Artamonov, che nella parte ieratica e cantabile di Oroveso presenta non una voce di basso cantante all’italiana, ma quella di un baritono drammatico alla slava, con timbro dai riflessi esotici ed estranei, e offuscato da un’emissione fibrosa e dall’ostentazione del massimo volume. Una curiosità: a lui è affidata, in questa Norma bolognese, l’esecuzione della paraponziponeggiante scena musicale «Norma il predisse, o druidi», composta dal giovane Richard Wagner in sostituzione dell’originale «Ah! Del Tebro al giogo indegno» (senza tuttavia valerne una nota). L’omaggio a Wagner è giustificato dal bicentenario che quest’anno lo riguarda: non ha tuttavia molto da spartire con la concertazione stabilita da Michele Mariotti, la quale nulla ha di quarantottesco ed è invece votata a un lirismo estremo, all’esaltazione del canto, alla levigatezza neoclassica e a qualche benvenuta sottolineatura di stile impero (si ascolti la bella retorica dell’attacco della Sinfonia, o gli echeggi, eroici o descrittivi, nel dialogo tra golfo mistico e banda di palcoscenico): una lettura di magnifica ispirazione, la quale fa da impietosa cartina al tornasole a proposito della genìa di battisolfa che sovente affligge le opere belliniane; spiace solo – e siamo alle solite – l’abbondanza di (piccoli) tagli apportati alla partitura: se quelle battute fossero rimaste al loro posto, lo spettacolo sarebbe durato non più di altri dieci minuti; sopprimendole, al contrario, le calcolate strutture di tutti i brani musicali interessati ne escono banalizzate.
Ripensando al trionfo che il pubblico fa piovere sui musicisti – e sulla Devia in particolare: a Bologna non si ascoltavano ovazioni simili dal 2004, ossia dalla Fille du régiment con Juan Diego Flórez – quasi ci si dimentica della parte visiva: allestimento di magazzino con regìa di Federico Tiezzi, scene di Pier Paolo Bisleri, sipari e fondali di Mario Schifano e costumi di Giovanna Buzzi. Domina un eclettismo senza bussola: sul fondo compaiono pianeti da film di fantascienza o teli dipinti in stile ’800, Norma indossa sopravvesti orientaleggianti, all’uopo vi è un salottino settecentesco, i figli della protagonista giocano con un trenino, i figuranti compongono in tableaux vivants tele di Jacques-Louis David. Si ha nel contempo l’impressione che il lavoro sulle masse sia stato ridotto al minimo, e che i cantanti facciano leva più sulla propria esperienza e reciproca collaborazione che su un lavoro approfondito col regista. Ma non ce ne lamentiamo: questa Norma doveva essere, ed è stata, la festa del belcanto.
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il mio commento non ha nessuna pretesa di giudizio musicale, ma devo esprimere la sensazione che la Signora Mariella Devia, mi ha trasmeso in una Norma epocale. Il conflitto della donna vecchia con la giovane che Le porta via l’amore, a pelle il canto di Mariella ”Norma” nell’ascoltare la Remigio ”Adalgisa” non ha nulla di competitivo , ma una dolcezza umana che solo in questa Norma si puo’ percepire e il dramma , chi non si arrabbierebbe.. bene Lei lo rende vero umano non ai fini del recitativo, emozionante come Mariotti faccia suonare l’orchestra del Comunale, che risulta sempre un po’ bandistica , con,dolcissimi suoni . Oltre ad una bravissima Remigio c’è un bravo Machado. Bravi il coro e piacevole la trovata del orogo con il sipario infuocat. grazie una Norma capolacoro.