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Opera • Il Theater an der Wien ha allestito nella Kammeroper la “Semiramide riconosciuta” di Vinci/Händel: sorprendente la qualità della giovane compagnia di canto ed esemplare l’allestimento firmato da Francesco Micheli
di Francesco Lora
COME DIRETTORE DEL PROPRIO TEATRO LONDINESE e come ideatore delle relative stagioni artistiche, Georg Friedrich Händel non si limitò a comporre nuove opere ma ne importò anche dall’Italia, adattandole al gusto del pubblico locale e alla caratteristiche dei nuovi cantanti. Dall’originale al pasticcio, tagliando e riscrivendo i recitativi, e trasponendo o sostituendo arie, egli dedicò particolare attenzione alle opere di Leonardo Vinci, fresche di grandi successi a Venezia, Roma e Napoli. La Semiramide riconosciuta data a Roma nel 1729 andò così in scena a Londra nel 1733, revisionata dalla radice e interpolata con arie di Corselli, Feo, Hasse, Leo, Porta, Sarro e Vinci stesso. Sia a causa della priorità data ai lavori tutti di mano di Händel, sia a causa dello stato frammentario delle fonti, i pasticci del Sàssone sono stati pressoché ignorati in età contemporanea; e questo è uno sbaglio: essi costituiscono un importante campo d’espressione del compositore e il suo principale agone di confronto con l’attualità italiana dell’epoca. L’allestimento della Semiramide riconosciuta di Vinci/Händel nella Kammeroper di Vienna (per il Theater an der Wien: dieci recite dal 23 settembre al 15 ottobre) è dunque atto di grande acume scientifico, oltre che restituzione all’ascolto dell’ennesimo capolavoro musicale e teatrale poco noto.
Nella buca d’orchestra del piccolo teatro viennese (250 posti circa) c’è posto per una ventina di strumentisti, perlopiù afferenti al Bach Consort Wien: li ha diretti il veterano Alan Curtis, con insolita vivacità e presentando una propria ricostruzione della partitura, molto tagliata e molto disinibita – vi è inserita anche un’aria dalla Semiramide riconosciuta di Porpora nella sua versione di Napoli 1739: dunque un autore non contemplato da Händel e un brano non ancora esistente al momento della preparazione del pasticcio – ma funzionale all’operazione. Operazione che rientra nel percorso formativo di una compagnia di canto giovanile e stabile, impegnata in parti minori negli spettacoli al Theater an der Wien e in parti principali in quelli ad hoc alla Kammeroper. Chi lo crederebbe? Di rado si è vista al lavoro una compagnia preparata in modo più rifinito e meglio disposta a investire fino all’ultima energia. Un esempio lampante: dei recitativi metastasiani non si perde una sillaba, un’allusione, un affetto, tanta è la cura posta nella dizione e nell’accento. E ciò sorprende tanto più se i membri della compagnia sono di provenienza ed esperienza disparate: Turchia, Israele, Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America e Lituania; da Monteverdi a Händel, da Mozart a Rossini, da Verdi a Puccini, da Rimskij-Korsakov agli Strauss.
Tra le signore si trovano le più interessanti rivelazioni. Il soprano Çiğdem Soyarslan, nella parte eponima, ha l’impostazione vocale importante di chi ha in repertorio anche la Gilda del Rigoletto e la Mimì della Bohème; al timbro brunito e alla generosa risonanza si unisce tuttavia una flessibilità inaspettata, che non teme la coloratura minuta, il gesto musicale o espressivo sottile; e l’attrice è consumata nello scandagliare il mobile animo della regina travestita, tradita, madre, vedova, amante, stratega. La freschezza e la leggerezza dell’altro soprano, Gan-Ya Ben-gur Akselrod, fanno a loro volta tutt’uno con le subitanee passioni e con i capricci adolescenziali della principessa Tamiri, resi con vocalizzazione facile disinvoltura scenica. Gaia Petrone, nella parte del traditore Sibari, è poi un caso raro di voce mediosopranile, smaltata e timbrata alla perfezione, capace di scendere con naturalezza a una tessitura di vero contralto: mezzi vocali degni dei migliori impieghi su scala internazionale. Più svelta è la cronaca sui signori, dal controtenore Rupert Enticknap come Mirteo (coraggioso in una parte di considerevole virtuosismo: gli spetta anche la superba aria «In braccio a mille furie», apparsa di recente in recital discografici di Franco Fagioli e David Hansen), al tenore Andrew Owens come Scitalce (assai impegnato in una parte in realtà scritta in chiave di soprano per il grande Carestini), fino al basso Igor Bakan come Ircano (il cantante mostra modi rozzi e spicci, ma proprio così Metastasio disegna il personaggio: dunque, nessuna obiezione).
Uno spettacolo esemplare: la trasposizione visiva ai nostri giorni avviene con mano delicata, senza offendere un solo verso poetico o una sola frase melodica
Rimane da dire dello spettacolo con regìa, scene e costumi firmati da Francesco Micheli. Uno spettacolo esemplare: la trasposizione visiva ai nostri giorni avviene con mano delicata, senza offendere un solo verso poetico o una sola frase melodica. La minuziosa cura della recitazione, al contrario, rivela la pregnante lettera teatrale e musicale di testi spesso creduti inamidati. C’è persino il regista che sa giocare – chapeau! – con le strutture musicali, per esempio quando Tamiri canta «Non so se degno sia» e, terminata la sezione mediana dell’aria col da capo, fa moto di voler abbandonare la scena e sfogare altrove il suo turbamento: ma Semiramide la trattiene in scena, costringendola da una parte a farsi carico dei propri affetti in faccia agli altri personaggi, dall’altra a rispettare l’inesorabile struttura musicale e a darle conclusione. E c’è soprattutto il regista in grado di lavorare nel testo, senza infliggergli sovrastrutture sociali o politiche o storiche estranee, ma piuttosto corredandolo di quei gesti muti che appartengono alla vita di ciascuno, che possono permeare i versi di Metastasio e aderire alle musiche settecentesche: il cercare il profumo della persona amata su un vestito rubato, l’addolorarsi davanti allo specchio per il travestimento che si è costretti a indossare, o per la perdita del travestimento che metteva a nudo la propria identità.
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