Opera • Per il suo bicentenario il Teatro Sociale ha proposto una lettura dell’umbratile capolavoro verdiano musicalmente solida ed elisabettiana nelle scenografie
di Elena Filini
OTELLO È UN UOMO DI CORAGGIO. Ed è proprio il suo impeto a farne un condottiero celebrato e un mortale che arriva all’abiezione. È uno da prima linea, un ardito. E come tale si nutre di passioni grandiose ed elementari. A Verdi Otello piaceva per lo stesso motivo per cui lo amò Shakespeare: perché esprime il teatro in tutto il suo potere antico, misterioso. È lontano dall’astuzia, giganteggia come i forti e come i forti perisce per assenza di sfumature e doppiezza. Alla fine di una vita teatrale posta al servizio dell’inesauribile scala dei grigi, Verdi sceglie non a caso due tipi estremi. Il tipo del pianto ed il tipo del riso, Falstaff. E così ce li consegna, con una scrittura musicale accuratissima e con un disegno drammatico volutamente primitivo, da tragedia eschilea o da commedia aristofanesca. La regia di Stefano de Luca sembra voler trovare proprio questa chiave. Tradizionale, sicuramente elisabettiana nella nudità della scena sfalciata dalle luci e da espedienti artigianali come la vela scura che, ora elemento della galea veneziana, ora secondo sipario, torna ciclicamente durante l’opera. Una lettura pertinente soprattutto nella logica del compleanno del Teatro Sociale di Como. Quel che si è visto al Sociale infatti non ha un’indubbia valenza in sé, ma onora la storia bicentenaria di un teatro di tradizione, espressione di quella onesta e competente macchina produttiva della provincia italiana che ha costruito l’identificazione tra opera e popolo.
L’intenzione sembra quella di lateralizzare gli elementi scenografici per concentrare l’attenzione sulla questione musicale. E la lettura di Giampaolo Bisanti alla testa dell’orchestra dei Pomeriggi musicali è più che valida: il suo Verdi esalta i clangori delle scene corali, si nutre di effetti di robusto sapore drammatico ma sa anche polverizzare il peso della compagine nei momenti più trasparenti e lirici (dal duetto Già nella notte densa all’Ave maria). Una bellissima prova per il direttore milanese che nel complesso (si perdona qualche scartamento nel concertato del III atto A terra, sì, nel livido fango…) struttura un Verdi virile e terrigno.
La robustezza della buca trova complemento in scena: Francesco Anile ha un colore ideale per il ruolo del Moro e, generalmente, dispiega i suoi generosi mezzi con musicalità ed equilibrio. L’Esultate non delude ma tutta la lettura del Moro è pertinente, con qualche impaccio forse nei piano in zona medio-acuta. Ed anche la prova scenica, nonostante una figura obiettivamente poco collaborativa, risulta umana e convincente. Davvero una prestazione positiva quella del tenore calabrese che potrà forse maggiormente meditare, negli accenti e nei gesti, la morte di Otello. Bello, sinistro, dannato e dominatore della scena è apparso Alberto Gazale quale Jago che ha dato corpo alla parola scenica verdiana in maniera efficacissima. Il colore è quello giusto del villain, qualche inflessione un po’ rude si comprende nella definizione di un ruolo di necessità giocato sul crinale tra machiavellismo e truculenza. La Desdemona di Daria Masiero offre una quadratura vocale di grande professionismo, con omogeneità di suoni in tutta la gamma e dei momenti di eccellenza nelle parti più liriche. Una Canzone del Salice di primo interesse e un’Ave maria di cristallina purezza non possono però far dimenticare il grosso impaccio scenico dell’artista che appare sempre poco fluida nei movimenti, e non riesce ad incarnare appieno “il tipo della bontà” che Verdi aveva in mente per il ruolo. Giulio Pelligra è un Cassio che a tratti trova buoni accenti ma che nel complesso manca della rotondità del tenor giovine verdiano. Meglio organizzato il Roderigo di Saverio Pugliese. Chapeau per il doge di Alessandro Spina, come molto buona la prova di Antonio Barbagallo quale Montano e dell’Araldo di Luca Vianello. Funzionale e in crescendo l’Emilia di Raffaella Lupinacci.
Una parola a parte merita la prestazione del Coro dell’AsLiCo diretto da Antonio Greco. La sensazione di pieno sonoro, il piacere di voci franche, rotonde, intonate e presenti anche nelle tessiture più impervie (con punte d’eccellenza per le sezioni soprani e bassi) ha invaso l’ascoltatore dall’apertura di sipario. La Tempesta e il Brindisi i momenti migliori, per una compagine che davvero non sfigurerebbe in una fondazione lirico-sinfonica. Merito soprattutto di Antonio Greco che sa porre insieme, in una visione completa del fatto musicale, la precisione e la pulizia del repertorio antico (suo terreno d’elezione) con il piacere istintivo per il bel suono, la fascinazione del tipico fraseggio all’italiana.
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