
Inaugurata la stagione dell’Accademia Filarmonica Romana al Teatro Argentina. La violoncellista ha eseguito pagine di Beethoven, Brahms e Servais con il pianista Henri Sigfridsson
di Simone Ciolfi
CONTINUA LA PROFICUA collaborazione tra l’Accademia Filarmonica Romana e il Teatro Argentina, che nata all’insegna del balletto, prosegue in ambito concertistico. All’Argentina ha infatti ha avuto luogo, la sera del 27 novembre, il concerto previsto nel cartellone filarmonico romano della violoncellista argentina Sol Gabetta, accompagnata al pianoforte dal finlandese Henri Sigfridsson. Il programma prevedeva due Sonate per violoncello e pianoforte di Beethoven, l’op. 5 n. 1 e l’op. 102 n. 1, la Sonata di Brahms (op. 38, in mi minore) e una deliziosa rarità, la Fantasie sue deux airs russes op. 13 del virtuoso violoncellista Adrien-François Servais (1807-1866), uno dei tanti artisti caduti nell’oblio ingiustificato e che meriterebbero di risorgere alle scene.
Le Sonate per violoncello e pianoforte di Beethoven sono un osso duro: l’impasto timbrico è arduo da cogliere per un ascoltatore, in ragione del fatto che il registro scuro del violoncello entra talvolta in fusione con quello tenorile del pianoforte. Inoltre, la scrittura di queste sonate, soprattutto quella dell’op. 102, è complessa, di una polifonia modernissima che nulla concede all’ornato e allo svago. Tutto è concettuale e denso, e richiede al pubblico massima attenzione. Magnifica la resa di Sol Gabetta, la cui forza e il cui magico legato si rivelano in ogni momento dell’esecuzione. Il lavoro del pianista è parso apprezzabile ma meno chiaro nel disegno e nella resa interpretativa, almeno in Beethoven. Tale sensazione, infatti, muta passando a Brahms, dove le doti di entrambi gli esecutori sono venute alle luce in accordo e senza ombre. Molto apprezzata la presenza della Fantasie di Servais, che ha richiesto a Sol Gabetta un impegno particolare (si tratta di un arduo pezzo virtuosistico per violoncello). Il pezzo di Servais non appartiene all’ambito dei capolavori, ma è testimonianza di un mondo musicale scomparso sì, ma un tempo dotato di grande vivezza, il cui repertorio, diffuso capillarmente nei salotti e nelle sale, bilanciava leggerezza e profondità senza aspirare all’eternità. La sua era una lingua del quotidiano che oggi ci permettiamo di guardare con una certa nostalgia. Era da quel mondo, infatti, che emergevano i capolavori, e non il contrario.
Un concerto di indubbio spessore, dunque, che valorizza il Argentina anche come luogo per la musica, oltre che per la prosa. Un teatro che possiede anche la dimensione giusta per la musica da camera, in virtù dei suoi spazi non certo contenuti, ma che comunque non allontanano troppo l’esecutore dal pubblico e danno al concerto il suo giusto valore di spettacolo performativo.